Abbagliante e sulfureo. Necropolis (1970) di Franco Brocani è un film d’intermittenze anzitutto, di fragilità, di resistenze. Di fuochi fatui, di erranze. E ancora, un film «di scorie e di macerie: culturali, cinematografiche, artistiche, politiche», come ha scritto Luca Verrelli. 

Una prima e ultima danza di lucciole lasciate baluginare in una notte, grande e profonda;  notte di violenta bellezza. Proprio come vermi luminosi (vi è raccolto qui un manipolo di attori simbolo dell’intero universo sperimentale dell’epoca) queste “altre” creature, dei monstra (a tutti gli effetti), stanno a fendere l’oscurità delle loro brillanti polluzioni («Il n’y a pas de tradition, il y a la pollution, scandisce un’aureolata Viva nel ruolo della ‘contessa’»), essudati luminosi.  A bruciare sui loro propri corpi la loro eccezione, o forse solo joi d’amour (come direbbe Georges Didi-Huberman, “Survivance de lucioles”).

Basti pensare in questo senso al superbo “caso” del Frankenstein (Bruno Corazzari) in smoking smeraldino, a quel suo galleggiare screziato sulla musica (preziosa anch’essa, di metalli, di cristalli) di Gavin Bryars tra brandelli di tende rosse ispirate a Schifano, a indagare nelle scolature «tutte le ipotesi di rosso possibile» (Franco Brocani); oppure alla Strega (Tina Aumont) la quale può cavalcare la luce come un cordone luminoso, ma… «la si può vedere solo di notte, sottoforma di stella filante». O ancora, alla corazza luminescente di luciferino scarabeo attraverso la quale vediamo, andare a e venire nella notte, scricchiolando quasi, malandrino come poche altre volte, un giovanissimo Carmelo Bene che qui solo beve fuma sputa. (E che sputi!).

Creature così belle, eppure: «Non possono sopportare la nostra vista!», proferisce dolente il nostro Frankenstein dopo aver scoperto e contemplato il suo riflesso ‘ferito’ in uno specchio scheggiato.

Del resto tutto non fa che rimandarci qui a una sorta di differimento per incantamento. Si può dire infatti che lo stesso (auto)incanto della pellicola più che nello s-piegarsi, stia proprio nel suo avvoltolarsi senza fondo e senza sfondo, in una serie di performance attoriali accese e consumate tutte nella città dei morti dove non c’è una sola Arianna che ci tenda il filo di una qualche salvezza; e dove la luce di Roma (quella cercata dagli Straub e dai tanti che si trasferirono lì nei ’60) in Necropolis scompare per lasciare spazio piuttosto alla sua nemesi: «il buio di una catacomba, il puzzo della muffa e della distruzione» (Giulio Bursi). 

Interamente girato in un teatro di posa – ed è davvero come se l’ombra del grande cinema v’avesse  voluto stendere sopra la sua ombra oscura-razza di stregoneria!- il capolavoro del regista originario delle Langhe (Murazzano,1938) torna a rivivere oggi nella sontuosità del suo trentacinque millimetri (adottato all’epoca in diretta e polemica risposta al sedici millimetri canonico del cinema underground), in un’edizione magistralmente restaurata e rieditata in home video da Ripley’s Film. 

Non può essere un caso allora che lo stesso Brocani sia tornato a insistere più volte proprio sulla forte matrice ‘espressionista’ di questo suo lavoro (capitale per tutto il cinema italiano degli anni ’70) quasi a voler porre in evidenza con la sostanziale incandescenza del materiale (soprattutto umano) da lui portato in scena – incandescenza resa ancor più “drammatica” dal serrato rapporto di reciproco avviluppamento di luce e ombra – l’incandescenza stessa di un’idea sinceramente aliena di fare cinema, assolutamente cioè non sovrapponibile a tutto quello che in Italia ufficialmente è stato definito “indipendente” o “underground” (egli non entrò mai, del resto, nel giro della Cooperativa Cinema Indipendente). Alla radice di questo suo ricercato e ostinato tenersi off (ma sempre fuori dall’off, come forse con lui solo Marco Ferreri e Pierfrancesco Bargellini) è facile supporre vi sia stata una diversa idea dell’immagine cinematografica stessa.

Nell’intervista al regista curata da Giulio Bursi e Andrea Meneghelli (che accompagna la sopracitata riedizione del film) Brocani parla della sua tecnica molto pragmatica di fare cinema, quasi artigianalmente, come si trattasse di un allestimento. E fa riferimento al suo cortometraggio: È ormai sicuro il mio ritorno a Knossos (1967), nel corso del quale  il meraviglioso, vertiginoso, racconto di Luis Borges tratto da L’Aleph («Non c’è volto che sia sul punto di cancellarsi come il volto di un sogno»), si interrompe d’un tratto con un pezzo sull’immagine di Maurice Blanchot (uno degli autori più amati, assieme a Valéry, Michaux, Witikiewicz, De Sade, Klossowski, Foucault, e ineludibile punto di riferimento di pensiero).

Vogliamo riportarne qui allora un breve passaggio che ci sembra abbastanza indicativo di una specie di “trance cinematografica” o stato di “estasi letteraria” (come ha voluto evidenziare ancora Bursi nella sua analisi) alla quale farebbe seguito immediatamente il cinema: come uno zampillo. Il passaggio si modella come nel documentario-omaggio all’amico Mario Schifano Schifanosaurus Rex (2008) vera e propria “‘istallazione filmica’ di unità scheggiate” (Roberto Turigliatto) su un flusso libero di associazioni letterarie e immagini:

Vorrei fra l’altro, come oggi si tenta, arrivare ad immagini che invece di essere strumenti moralistici delle mie persistenti teorie e preconcetti, possano dirmi qualcosa. (…)  Schifano ha sempre collegato l’immagine al tempo cogliendola nell’istante veloce della sua apparizione e avvertendola nella sua relatività come un’immagine che entri casualmente all’interno di un qualunque campo ottico.

Se la realtà è simile a tanti nastri scorrenti davanti a un obiettivo, per afferrarne  un’immagine occorre rapidità di presa e allora il ricalco dell’immagine sulla tela va benissimo per fissarla e, smaterializzandola, conservare la sua leggerezza.

Il cinema in questo caso non è che uno sconfinamento logico;  è disporre cioè di un obiettivo più aderente allo trascorrere del mondo, è allargare la partecipazione ad una pluralità di immagini. L’immagine infatti è pur sempre l’unica essenza di realtà ma siccome è portata dall’istante può venire cancellata e sostituita da un’altra in ogni istante successivo. Se può essere immobilizzata  non è per passare poi alla staticità delle cose conosciute e fissate come in uno schedario fotografico per sempre; è per celebrarne la precarietà, l’effimero abbaglio della visione. E’ la dolorosa scommessa della sua prossima scomparsa.

Borges, Blanchot. E a questo punto non esiteremmo ad aggiungere Bergson assieme al Sartre che scrive che ogni sogno, come ogni fase o ogni immagine di un mondo, è un mondo. E se il sogno innanzitutto non è metafora, ma una serie di anamorfosi capaci di tracciare un circuito molto ampio allo stato diffuso di pulviscolo di sensazioni, esteriori e interiori, colte per se stesse, e in grado di sfuggire a ogni coscienza, sulla scia delle immagini-sogno bergsoniane ci sembra possa essere pensato nel suo complesso anche l’anarchivio d’immagini e figure di Necropolis.

Allucinazione e percezione vi sono irrimediabilmente confuse; organico e inorganico scorrono assieme, meglio, sembrano trascorrere l’uno nell’altro, precipitati assieme su un piano di narrazione che non potrebbe essere più inclinato, solo governato dagli impulsi di una soggettività automatica volta a incoraggiare un continuo passaggio di sostanze, specie nei colori, tra corpi ed elementi. 

Ogni sequenza (nella stragrande maggioranza il nucleo di ogni ripresa si condensa su piani fissi) più che il risultato di un montaggio di inquadrature, sembra venire dalla fusione di una serie di incrinature; davvero difficile pensare di suturarle in un discorso “organizzato” e soprattutto “piano”.  Poiché si dovrà far riferimento perlopiù a immagini che non potrebbero essere più disseminate a formare quel circuito infinitamente grande che è giustappunto il circuito del sogno.

E se da un lato si procede per carichi e sovraccarichi, dissolvenze, sovraimpressioni, disinquadrature, effetti speciali, dall’altro non si può dire certo che nelle sue scelte di découpage Brocani non abbia saputo essere anche molto sobrio, a suo modo, operando spesso per tagli netti, violenti quasi, tesi a evidenziare un continuo sganciamento che “faccia” decisamente sogno, pur tra oggetti che rimangono concreti.

Il deserto lunare di Necropolis (con le sue polveri) sorge infatti dall’arte povera, da Pascali soprattutto  (il letto di ghiaccio di Frankenstein).  Così la scenografia, a fare bene attenzione, porta i segni, le cicatrici delle costruzioni dismesse a Cinecittà.  Eppure chi potrebbe dire ‘dove’ e ‘in quale tempo’ davvero “accada” la cavalcata alla Montezuma di Clémenti? Chi potrebbe ricucirne il Tempo? Non stanno forse i falsi raccordi esibiti qui a marcare, espressionisticamente, il vitale oscuro che solo può sprigionarsi dalle esistenze marginali e che solo può nascere, svaporando, dalla soglia? Una bocca, una vagina. Se si viene inghiottiti è solo per rinascere una seconda volta.  E forse tutto quello che è da trovare è un Paradiso, un altro Paradiso.

Il faut/savoir/ comment…

 

NECROPOLIS, regia di Franco Brocani, Italia 1970, 119' (Ripley's Home Video)