A differenza della maggior parte dei registi cechi e slovacchi attivi dal secondo dopoguerra in poi, diplomati alla rinomata F.A.M.U. di Praga, František Vláčil (nato nel 1924 in Moravia, al confine con la Polonia) ha una formazione non specificatamente cinematografica. Dopo gli studi di Estetica e Storia dell’Arte presso la Facoltà di Filosofia dell’Università di Brno, s’impiega in maniera del tutto casuale presso lo studio cinematografico dell’Esercito, a Praga. Quella che doveva essere una semplice parentesi durante il servizio militare si trasforma in un periodo di ben nove anni, dal 1951 in poi, in cui Vláčil apprende molto del mezzo cinematografico, girando, oltre alle produzioni istituzionali dello studio, anche alcuni cortometraggi “personali” come Vzpomínka (Il ricordo) e Sklenená (Le nuvole di vetro), ambedue del 1954. In questi primi lavori Vláčil utilizza in modo a dir poco parsimonioso il dialogo, a dominare è la componente visiva, aspetto che costituirà una costante anche del suo cinema a venire: “Il film è prima di tutto visione”, affermerà il regista a distanza di molti anni dai suoi esordi. Anche quando s’impiega presso gli studi Barrandov (prima come assistente e poi come regista), Vláčil è un vero e proprio outsider: distante tanto dal gruppo dei cineasti della “vecchia guardia” attivi già prima della guerra quanto dalla cerchia di coloro che costituiranno la cosiddetta Nová Vlna. Da sempre dichiarato estimatore di Bergman, Bresson e Buñuel, nel corso degli anni Sessanta, il decennio d’oro del cinema cecoslovacco, Vláčil realizzerà una dozzina di film, molti dei quali di difficile classificazione se paragonati a quelli della produzione coeva.

Holubice (La colomba bianca, 1960), il suo lungometraggio di debutto, è un’opera dall’esile impalcatura narrativa ma dall’affascinante e composita dimensione visiva. Belgio: un uccello viaggiatore è liberato in volo. Smarritosi durante una tempesta, finisce a Praga, dove Michal, un bambino costretto in sedia a rotelle a causa di una drammatica caduta, lo ferisce con il suo fucile ad aria compressa.  Intanto, sulle spiagge di un’isola del Baltico la giovane Susanne attende vanamente l’arrivo del volatile. Spinto da Martin, scultore e pittore vicino di casa del bambino, quest’ultimo si prende cura dell’uccello, ridotto in fin di vita, accettando le conseguenze del suo atto e finendo per affezionarsi all’animale. Il film procede presentando due situazioni parallele: da un lato l’attesa di Susanne, dall’altro la maturazione in Michal di un sentimento di compassione e del desiderio di evasione. I due non s’incontreranno mai, ma sono accomunati da un autentico percorso di crescita che passa attraverso il dolore e la presa di coscienza di nuove consapevolezze. Il mondo di Michal è verticale, claustrofobico, oppressivo, mentre quello di Susanne è caratterizzato da una maggiore orizzontalità: in generale, a dominare è una costante sospensione temporale che rende ogni spazio rappresentato sullo schermo privo di un ancoraggio certo a una realtà data. I personaggi vivono in un’atmosfera rarefatta, quasi magica: contribuisce a questa dimensione la sostanziale assenza di dialogo. I rumori, a volte difficilmente distinguibili, compongono un diffuso e straniante accompagnamento sonoro al pari della musica composta da Zdenek Liska, di rara efficacia nei momenti di tensione emotiva. Lo spazio, illuminato dalla presenza improvvisa di oggetti apparentemente estranei all’ambiente in cui sono collocati e spesso ripreso in profondità di campo (il film vinse il Premio per la Migliore Fotografia al Festival di Venezia), è percorso da una macchina da presa che si muove lentamente e sinuosamente.

Troppo frettolosamente paragonato a Kes di Ken Loach (1969, curiosamente premiato proprio al Festival di Karlovy Vary con il Křišťálový glóbus per il Miglior Film), con il quale condivide il tema del rapporto bambino-uccello, Holubice è un film che spiazzò totalmente al momento della sua uscita sugli schermi cechi e slovacchi. Molto distante dal cinema correntemente prodotto e al contempo difficilmente ascrivibile al montante fenomeno della Nová Vlna (per un approfondimento sulla questione, ci permettiamo di rimandare al nostro Il realismo simbolico di Štefan Uher), Holubice possiede ancora oggi una grande forza visiva che lo avvicina al film che senza dubbiot costituisce la vetta dell’opera di Vláčil, ovvero Marketa Lazarová (1967), tratto dal romanzo di Vladislav Vančura e ambientato come il successivo Údolí včel (La valle delle api, 1968), nel Medioevo boemo (qui, un approfondimento dedicato alle opere maggiori del regista). Holubice rappresenta la prima tappa del percorso visionario di un regista che, scomparso nel 1999, è ancora oggi troppo poco noto. Quarant’anni fa František Vláčil diceva di sé: “Non ho mai studiato cinema. Non sono un uomo di cinema. Sono un dilettante”. Un dilettante di enorme talento.

Le dichiarazioni František Vláčil citate sono tratte da Antonin J. Liehm, Closely Watched Films. The Czechoslovak Experience, Iasp, New York, 1974, pp. 170-179.

LA COLOMBA BIANCA (Holubice), regia di František Vláčil, Cecoslovacchia 1960, 67' (Second Run)