Con un rigore e una coerenza che fanno di lui un epigono “franco-giapponese” di Jean-Marie Straub et Danielle Huillet, Christian Merlhiot s’interroga da sempre sui limiti del rappresentabile e sul potere immaginifico della parola. In quasi tutti i suoi lavori, marcati da uno stile piano e scabro, la proferazione estende i limiti del quadro, apre prospettive sorprendenti e instaura legami inediti: tra il pianeta Marte e l’India, tra un registratore analogico e gli atti del processo di Oscar Wilde, tra presente e passato (Slow Life). Il suo è un cinema dell’epurazione, della differenza non categorizzabile, del paradosso: l’immagine incornicia racconti di vita semplici e al tempo stesso sfuggenti. Quando il cinema dispiega senza spiegarsi e piegarsi alle logiche del mercato. 

 

Il tuo ultimo film, I Will Be Back as a Baby – Je reviendrai comme un enfant, è animato dalla parola e dall’atto che ne costituisce il corollario: l’ascolto. La memoria di un popolo sopravvive nella e attraverso la parola. E la parola deambula nello spazio e nel tempo degli avi. L’ascolto è il cuore pulsante del film, il punto di partenza del racconto.

La prima idea del film era far ascoltare il racconto di Iqallijuq, donna inuit nata all’inizio del Novecento nell’Artico canadese, ai membri della comunità inuit. Siamo ritornati nel villaggio d'Igloolik dove la donna ha risieduto negli Anni 60 e abbiamo trasmesso la registrazione alla radio locale. La reazione degli abitanti del villaggio è stata immediata, ci hanno telefonato per fornire la loro testimonianza, evocare i loro ricordi, le stesse esperienze descritte dalla donna nel suo racconto: la trasmissione dei “nomi” e i cambiamenti di sesso alla nascita. Abbiamo prolungato lo scambio incontrando le persone e filmandole. Ogni volta, ritornavamo al punto di partenza del nostro progetto facendo vedere agli intervistati il filmato che ritrae Iqallijua e che contiene la sola domanda che indirettamente poniamo agli abitanti: “Cosa resta, oggi, della storia raccontata qualche decennio fa dalla inuit?" Dopo aver ascoltato la voce dell’avo, ne abbiamo ascoltato il suo prolungamento e l’evocazione delle pratiche e usanze che sono sopravvissute alla globalizzazione e che si celano dietro l’apparente “americanizzazione” della loro cultura. E’ una costatazione alla quale lo spettatore del film giunge, seguendo il ritmo e la cadenza in cui le cose si sono presentate ai nostri occhi. Le diverse testimonianze ci fanno immergere in una realtà parallela in cui la parola scorre tra passato e presente, o meglio in un tempo in cui presente e passato sono indissociabili. In un’intervista che non è stata inserita nel film, il cineasta Zakarias Kunuk descriveva la sua esperienza in questi termini: "Quando sono nato, alcune persone, donne e uomini, erano appena decedute e la mia famiglia mi ha trasmesso i loro nomi. Queste persone continuavano così a vivere in me."

Il rapporto con la morte, con la scomparsa, con la perdita: tutto pare oscillare. Non si tratta più di elaborare un lutto, non bisogna dimenticare per sopravvivere ma ricordarsi per far sopravvivere gli altri. Il ricordo di coloro che non ci sono più è una sorta di linfa vitale per i viventi. E il tuo film pare proprio dar conto di questa semplice evidenza: raccontare è vivere e far vivere. La parola come atto di resistenza.

Nella cultura nomade, la parola e il racconto che essa genera sono state a lungo dei beni preziosi. Pochi oggetti vengono trasmessi di generazione in generazione e nessun bene. La parola era il solo supporto e mezzo per assicurare e trasmettere forza, abilità, saggezza, savoir-faire. Non vi era alcuna iscrizione o scrittura, nessun registro o “tavola” fondatrici. Forte della sua esperienza, l’avo torna dopo la morte e trasmette il suo nome a un neonato. Attraverso questo ciclo vitale, la comunità nomade era in grado di trasmettere la sua storia, di attualizzarla e rinnovarla ininterrottamente. Ma la parola proviene da un contesto i cui connotati sono stati interamente riformulati quando gli Inuit sono diventati una comunità sedentaria. La cultura ha subito una metamorfosi ulteriore a seguito della cristianizzazione e dell’armonizzazione del sistema dei nomi sul modello occidentale, con l’invenzione di una scrittura e col passaggio al multiculturalismo. Il film si interroga anche su questo. Quali pratiche ancestrali sono sopravvissute? Come? Attraverso la sovrapposizione, la contaminazione, l’incorporazione dello stile di vita americano? E la parola, i racconti rimasti per lungo tempo immersi nella cultura endogena, sono oggi divenuti puri atti di resistenza?

Il viaggiatore Nasri Sayegh, tuo intermediario, è pronto a cogliere i ricordi di un popolo. Senza giudicare. Niente pare sorprenderlo o stupirlo, nonostante la straordinarietà dei racconti. Straniero tra gli stranieri, ascolta il soffio di identità che avvengono e divengono. Come avete interagito con gli abitanti, come vi siete avvicinati ad una cultura radicalmente diversa e sfuggente?

Attraverso il prisma della parola, delle pratiche che essa induce e dei racconti che sedimenta. Credo di essere riuscito ad avvicinarmi alla parte “universale” della cultura inuit, e per questo mi sono sentito legittimato ad affrontare determinate questioni. Il film non dà conto di come gli Inuit vivono o lavorano oggi o di come vivevano e lavoravano in passato. Ci ricorda semplicemente che attorno a noi esistono altri modelli di costruzione sociale, altri modelli di costruzione dell’individuo, che delle identità sociali e sessuali più complesse sono possibili. Il film non rivela la singolarità di un popolo o di una cultura, ma valorizza un bene comune di cui noi tutti disponiamo: la nostra libertà di costruirsi, di ricostruire la nostra identità. Il film non ha ambizioni etnografiche, anche se può sembrare.

La macchina da prese pedina gli abitanti del villaggio soprattutto all’esterno, raramente all’interno…

Ci siamo resi conto quasi subito che le interviste all’interno delle case erano piatte, prive di linfa. Alla parola sembrava mancare un sostegno essenziale: lo spazio, la luce, il paesaggio, il vento. Per questo abbiamo fatto in modo che le interviste si svolgessero attorno al villaggio, sulla spiaggia e nell’entroterra. Ogni racconto sembrava entrare in relazione con qualcosa d’inesprimibile, col silenzio, con la prossemica. I gesti per designare un uccello, una roccia o un’alga avevano la stessa densità semantica di una parola e il racconto entrava così in risonanza con gli elementi e con il cosmo. A questo dovevamo giungere: identificare una situazione e un luogo che permettessero ai racconti personali di svilupparsi e di “espandersi” per entrare nella Storia.

Il film si interroga su identità e gender. L’identità degli avi scolpisce quella dei discendenti Inuit. Anche le identità di genere. La memoria è più forte del genere in qualche modo. Non si nasce uomo o donna, si diventa uomo o donna in un certo momento e in funzione delle relazione che instauriamo con gli avi.

In effetti il “nome” trasmesso a un bambino o addirittura i “nomi” trasmessi al bambino forgiano parte della sua identità. Mediante questa ridistribuzione dei nomi, un avo di sesso maschile può “ritornare” alla vita in una bambina. Più nomi equivalgono à più “ritorni” e, spesso, a più identità di genere. Ogni avo di cui un bambino accoglie il nome trasmette a quest’ultimo i suoi tratti dominanti: la forza, la temperanza, la saggezza. L’identità del bambino è il punto di convergenza di queste molteplici identità e “eredità”. La molteplicità dei nomi non è mai fonte di dispersione. L’individuo può avere più ruoli sociali, più identità di genere. Ad esempio, una ragazza che gli abitanti del villaggio chiamano “Nonno” svolgerà attività normalmente svolte da uomini, come cacciare o pescare. Questo incrocio di ruoli attesta la presenza degli avi e, dal momento che i nomi inuit sono “neutri”, non esistendo nomi maschili o femminili, la loro trasmissione facilita il superamento della frontiera che separa, in una società fondata sulla distinzione di genere, i due sessi. Il film riflette sulla costruzione dei generi a partire da un caso specifico, al fine di spingere l’osservatore occidentale a interrogarsi sul “peso” della propria cultura. 

Gli Inuiti non nascono ma rinascono e si riconoscono incessantemente. Un’identità non può prescindere dall’identità familiare o comunitaria. Essa le incorpora, le cristallizza non soltanto nel “nome” ma anche nelle pratiche sociali. "Essere" è "ricordarsi" di coloro che erano là prima di te. La famiglia è una casa nel tempo. E il tuo film intercetta questo scivolamento, questo stato parallelo in cui non si è ma si diviene e si “ritorna”.

A proposito degli attori non professionisti del suo film Atanarjuat, Zakarias Kunuk diceva che essi “performano” i loro avi. La continuità tra generazioni, come la continuità tra uomini e donne, tra avi e neonati, tra morti e viventi, fa di una cultura un “divenire” più che uno stato, qualcosa di vivente, una “presenza”. Seguendo i meandri disegnati dalla parola, il cinema diviene il “luogo” in cui questa presenza fluttuante e costantemente in metamorfosi si fa sentire, diviene palpabile.