Buona parte del tempo e dello spazio a disposizione per disquisire di Snowpiercer lo si è speso a proposito delle polemiche tra Harvey Weinstein e Bong Joon-ho sull'edizione director's cut o a donare nuove e differenti sfumature all'aggettivo "distopico", di cui improvvisamente tutti sono diventati padroni. O peggio ancora, a discettare su quanto sia riuscita l'esperienza hollywoodiana di Bong, come se si trattasse di uno shooter qualsiasi.

Per sgombrare il campo da equivoci frutto di pressapochismo, Snowpiercer non è un film hollywoodiano. È una coproduzione tra Corea del Sud, Stati Uniti e Francia, il film più costoso nella storia del cinema sudcoreano (38 milioni di dollari il budget), affidata a un cast volutamente multi-etnico, in cui l'incarnazione del supereroe di Chris Evans o quella della dispotica (che poi di “distopica” è anagramma, volendo vedere) voce del padrone di Tilda Swinton sono affiancate alla massima icona del cinema sudcoreano Song Kang-ho e a caratteristi tutt'altro che anonimi; come il rumeno Vlad Ivanov (4 mesi, 3 settimane, 2 giorni) che, senza pronunciare neanche una battuta del copione, si imprime indelebilmente nella memoria per la brutalità delle scene di lotta.

Un'opera che fa dell'eterogeneità, dei propri contrasti e conflitti interiori, finanche dei propri difetti, un punto di forza: anziché appiattire su un impianto hollywoodiano l'unicità del cinema di un'altra terra (e soccombere come Tsui Hark o Kim Jee-woon), Bong permette a ogni personaggio di recitare nella propria lingua, preservando la natura di Arca di Noè-Torre di Babele di un treno destinato a ospitare l'umanità intera, e mantiene integra l'estetica della propria cinematografia. Le risoluzioni all'arma bianca, crude e realistiche, in cui nulla viene risparmiato in termini di sofferenza, appartengono inequivocabilmente all'autore di The Host e Memories of Murder e non trovano un riscontro in alcun esempio di blockbuster hollywoodiano. Preservare lo specifico di stili di recitazione talora ossimorici (Evans e Song) sembra rafforzare il presupposto, chiaro sin da principio, di voler mescolare a tutti i costi le carte, nel campo dell'intra-diegetico e dell'extra-diegetico. Lo spunto originario del fumetto di Lob e Legrand – la serie La Transperceniege – è sconvolto e disatteso. Quella che era soprattutto una riflessione sul Novecento e sulle sue opposte polarità – che comprendeva una riedizione del treno di Auschwitz da un lato e dell'inevitabile conflitto sociale dall'altro, con esplosione in senso marxista-leninista – viene contaminata da un meccanismo meno lineare e più nichilista. Per Bong Joon-ho e Kelly Masterson – co-seneggiatrice del film, a cui si deve lo script dello straordinario noir edipico  Onora il padre e la madre di Sidney Lumet – la Coda è malata quanto la Testa, il Potere, come un Giano Bifronte o un Harvey Dent, ha due volti, ambedue affascinanti quanto menzogneri. Non c'è scampo per l'ideale rivoluzionario, a meno che questo si trasformi in anarchia, e nella consapevolezza che la verità non sta scritta dove la si presuppone di leggere, ma nell'unico luogo che nessuno desidera mostrare, preferendo considerarlo tabù.

La gestione di una materia così complessa, e delle molteplici implicazioni filosofiche e spirituali ad essa sottesa, è tale da comportare qualche sacrificio in termini di credibilità, di perfezione della messinscena (talora, specie nella prima parte, sorprendentemente convenzionale e “televisiva”), di coerenza della sceneggiatura (le doti di vaticinio di Yoo-na, ben presto dimenticate). Ma si tratta di nei del tutto trascurabili, quando le ambizioni dell'affresco generale si spingono fino a una sintesi così ricca di stimoli e influenze, in cui a passare in rassegna è un portato mastodontico di sforzi artistici del passato, non solo in materia di distopia. A partire dall'universo kubrickiano, che si dipana attraverso un fil rouge che parte dal Dottor Stranamore e dal suo abominevole progetto di reboot della società comunemente intesa, per passare attraverso il percorso e le rivelazioni sulla natura umana di 2001 (chi è Ed Harris, nuovamente demiurgo-villain, se non l'Uomo all'apice della propria inventiva tecnologica e al punto più remoto dai sentimenti che rendono l'uomo diverso dalla macchina?) e approdare al capodanno di Shining, esplicitamente citato con il motivo di Midnight the Stars and You, in una festa di sangue che pare l'approdo di una tendenza inesorabile all'autodistruzione, da cui l'umanità non riesce a sottrarsi. Il nichilismo tragico del noir e del mélo sudcoreani, punto di forza degli esiti migliori dello hallyu di inizio di terzo millennio, ritrova così i propri padri spirituali, in un abbraccio impossibile, e si confronta con gli archetipi moderni del blockbuster, la separazione in caste di Titanic, il neo-messianesimo rivoluzionario di Matrix e l'universo di Gilliam (casuale il nome del personaggio di John Hurt?), in particolare de L'esercito delle 12 scimmie.

Un pastiche multi-stratificato che non può prescindere da una riflessione sul cinema, sottesa all'intera allegoria: il treno, oggetto cinematografico per definizione, che necessita(va) di un innocente macchinista-proiezionista, separato da un mondo (“il” mondo) osservabile, ma senza alcuna possibilità di interazione. Il primo, la “sacra” locomotiva, ricco di scenografie visionarie, il secondo, al contrario, glaciale e non solo in senso climatico, ma per azzeramento emozionale. Una critica neanche troppo velata alla tendenza del cinema contemporaneo, come testimonia la consapevole (benché incompresa) scelta di una CGI essenziale fin quasi alla sciatteria per illustrare ciò che sta al di là dei finestrini. E piace pensare che Bong avesse in mente Lettera da una sconosciuta di Ophüls – peraltro uno dei film preferiti di Kubrick – e il finto viaggio in treno al Prater di Louis Jourdan e Joan Fontaine, in un simbolico loop sulla magia del cinema (e del mondo immaginato) e sul suo inevitabile inganno.

 

Snowpiercer, regia di Bong Joon-ho, Corea del Sud, Francia, USA 2013, 126'.