Dare significato alla vita può sortire follia

Edgar Lee Master, George Gray,

Antologia di Spoon River

 

Tra i Paesi del blocco del Patto di Varsavia, la Cecoslovacchia è stato quello che per molti versi ha sempre presentato le maggiori differenze al suo stesso interno, differenze di carattere etnico, urbanistico, culturale. Anche il cinema non è sfuggito a questa costante dialettica tra Praga e Bratislava, le città (oggi capitali dei due Stati sorti dalla divisione della nazione e del suo territorio) simbolo delle due “anime” del Paese.

Proprio come per molti altri ambiti, anche in quello cinematografico Bratislava ha patito un complesso di inferiorità rispetto a Praga. In quest’ultima città, infatti, il cinema si è strutturato come industria e apparato produttivo sin dall'inizio del Novecento, raggiungendo negli anni Venti-Trenta ottimi livelli sia in termini di film prodotti, sia in termini di attenzione da parte del pubblico. In Slovacchia, al contrario, la produzione è sempre stata limitata sotto il profilo numerico risultando confinata in temi dal sapore regionalistico, in soggetti convenzionali e dal carattere “ufficiale”. Se intorno al 1940 si segnala un tentativo di “emancipazione” e di uscita da quello che molti storici definiscono come una sorta di costante “dilettantismo”, la guerra prima e l'entrata nella sfera d’influenza sovietica poi (con il relativo schematismo dogmatico imposto dal dirigismo del Partito Comunista) incidono negativamente sulle velleità di crescita di una realtà che riuscirà a imporsi come cinematografia autonoma solo negli anni Sessanta.

Per questo, quando nel 1962 appare sugli schermi Il sole nella rete (Slnko v sieti), dello slovacco Štefan Uher, in pochi intuiscono la portata storica di un evento apparentemente di poco rilievo. Infatti, sarà proprio il secondo lungometraggio di Uher a segnare una vera e propria rottura per tutto il movimento cinematografico nazionale dando il via a quella che ancora oggi siamo abituati a chiamare la Nová vlna, la nuova ondata del cinema cecoslovacco. Sempre nel 1962, a Il sole nella rete fa seguito Un sacco di pulci (Pytel blech), della ceca Vĕra Chytilová, mentre l’anno successivo è la volta dell’esordio al lungometraggio di finzione di Miloš Forman con L'asso di picche (Černý Petr). Queste tre pellicole segnano una discontinuità netta rispetto alla massa della produzione di quel periodo, caratterizzata da film di ambientazione storica, commedie sentimentali, pellicole dal tono “edificante”, documentari didascalici e molte opere d’importazione dai paesi “amici” del Patto di Varsavia, Unione Sovietica su tutti.

Nonostante il film “apripista” della Nová vlna sia slovacco, il cinema di Bratislava non riesce a uscire da una situazione ancillare rispetto alla produzione praghese. Se intorno alla metà degli anni Sessanta si affermano cineasti del calibro dei già citati Chytilová e Forman, di Ivan Passer, Jan Němec, Jiří Menzel, Jaromil Jireš, Pavel Juráček, Evald Schorm, Antonín Máša, Hynek Bocan, gli slovacchi faranno sempre molta fatica a emergere nella produzione di finzione. Tra questi, si segnalano pochi nomi: Eleo Havetta, Dušan Hanák e, soprattutto, Juraj Jakubisko.

Nato nel 1938 a Kojšov (nei pressi di Košice), Jakubisko si avvicina al cinema dopo alcuni anni trascorsi a occuparsi prima di arte figurativa (pittura in particolare) e dopo di fotografia. Nel 1960 s’inscrive alla FAMU di Praga realizzando nel periodo del corso alcuni cortometraggi come Mutismo (Mičanie, 1962), Pioggia (Dažd', 1965), e soprattutto Aspettando Godot (Čakaju na Godota, 1966), lavoro in grado di sollecitare l’interesse di critica e addetti ai lavori. Contemporaneamente vive appieno il clima della Praga della “Primavera”. La capitale è una città profondamente aperta alle novità che provengono dall'esterno. Nel 1965 vi trascorre alcuni giorni Allen Ginsberg, ed è proprio Jakubisko a riprendere l'evento, per poi inserire il materiale girato in uno dei suoi corti di studente del FAMU.

Il primo lungometraggio del regista, Gli anni di Cristo (Kristove roky, 1967), è un film che ben si colloca nello spirito delle diverse vagues internazionali, raccontando il passaggio dalla gioventù all'età adulta di un giovane pittore slovacco che vive a Praga e che “a trentatré anni entra nell'età della ragione e comprende finalmente che la vita è un miscuglio di “amore, stupidità e morte” (1). Lo stile risente molto della Nouvelle Vague francese, segnalandosi per l'uso intensivo delle riprese dall'alto, del fermo fotogramma, delle panoramiche a schiaffo e a 360°, nonché per il ricorso a gag fisiche e all'improvvisazione che rimandano da vicino al cinema di Jean-Luc Godard, modello manifestamente dichiarato dallo stesso Jakubisko. Secondo Mira Liehm, “Il film segna non solo la nascita di uno straordinario talento, ma anche la nascita dello stile slovacco” (2).

Il secondo lungometraggio, Il disertore e i nomadi (Zbĕhovia a putnici, 1968), è un lucido discorso sulla guerra e sulla morte (scritto insieme allo sceneggiatore Karol Efraim Sidon, drammaturgo, romanziere, diplomato in sceneggiatura al FAMU, divenuto anni dopo rabbino di Praga), che mostra chiaramente come il regista sia in grado di andare al di là di un contesto contemporaneo. D'altronde, la tematica bellica è ancora al centro del cinema slovacco e ceco, anche se il modo di affrontare tale argomento in Jakubisko è del tutto anti-retorico, a differenza della grande massa della produzione coeva. Un rifiuto della retorica militare e dell'eroismo nazionale che ricorda l'approccio di un ideale “fratello maggiore” di Jakubisko, il polacco Andrzej Munk.

Il terzo film di Jakubisko, Uccelli, orfani e pazzi (Vtáčkovia, sitoty a blázni, 1969), viene realizzato in sinergia con un produttore francese recatosi in Slovacchia per girare L'uomo che mente (L'homme qui ment, 1967) di Alain Robbe-Grillet.

Il film, le cui riprese iniziano nell'ottobre 1968, poco dopo l'invasione sovietica della Cecoslovacchia dell'agosto dello stesso anno (e, infatti, nel film appaiono molti militari russi e alcune battute sintomatiche come “Quando i soldati invadono la tua terra e ti rubano la casa e la lingua, costruisciti una casa dentro l'anima, e sarai felice”), è completato nel 1969 e proiettato al festival di Sorrento, per poi venire immediatamente bandito dal regime sino al 1989, ovvero sino alla Rivoluzione di Velluto.

Uccelli, orfani e pazzi è ambientato in un tempo e in uno spazio non specificati, in un universo grottesco, a tratti assurdo, costantemente in bilico tra melanconia e allegria isterica. Il titolo trae origine da un'espressione popolare slovacca che recita “Dio ha a cuore uccelli, orfani e pazzi”.

I protagonisti della vicenda sono Yorick (interpretato da Jiřî Sykora, attore attivo nel cinema di Ewald Schorm e di Jaromil Jireš), Marta (impersonata da Magdaléna Vášáryová, nota per la sua interpretazione in Marketa Lazarová (1967) di František Vláčil e futura ambasciatrice cecoslovacca in Austria e Polonia) e Andrej (cui presta il volto il francese Philippe Avron). Tutti e tre sono rimasti orfani: Marta, ebrea, afferma che i suoi genitori sono morti in un campo di concentramento, Andrzei sostiene che sono stati gli ebrei a uccidergli madre e padre. Yorick afferma d'essere il figlio del generale Milan Štefánik, celebre figura storica, insieme a Tomáš Garrigue Masaryk e Edvard Beneš tra i protagonisti della nascita della Cecoslovacchia.

Tutti e tre vivono insieme in una chiesa distrutta dai bombardamenti circondati da uccelli.

Poco dopo l'inizio della convivenza, Yorick intreccia una relazione con Marta. Andrej, che è vergine, impacciato e timido, fatica ad avvicinarsi alla donna sino a quando Yorick viene arrestato e messo in prigione. La sua assenza favorisce il contatto tra gli altri due conviventi. Una volta rientrato dalla detenzione, Yorick reagisce violentemente all'unione di Marta e Andrej, finendo per uccidere la donna (che è incinta) e decidendo di suicidarsi. Il destino di Andrej resta invece sconosciuto allo spettatore.

L'esistenza dei protagonisti si regge sulla profonda convinzione che l'unico modo per vivere sia adottare un approccio “infantile” alle cose. Com’è stato correttamente osservato, “I personaggi di Jakubisko reagiscono alla pressione della realtà liberando la propria spontaneità, sforzandosi di realizzare la propria immagine della felicità attraverso il gioco, attraverso atti bizzarri e comportamenti folli, mai però predeterminati” (3). Marta, Yorick e Andrej cercano la felicità a costo di rincorrerla nella follia, rigettando ogni convenzione sociale e al limite morale, costruendo un mondo che considerano libero. Ma la loro è una pura illusione, perché, come afferma lo stesso Jakubisko, “Gli uomini non possono mentire a se stessi all'infinito” (4). Sempre che non si rifugino completamente nella follia. In questo senso, si veda quanto sostiene Yorick, secondo il quale “Solo un pazzo può essere un uomo libero”. Il nome Yorick è evidentemente tratto da quello del personaggio omonimo dell'Amleto di Shakespeare, il buffone di corte il cui teschio viene dissotterrato durante la tragedia. Ma i riferimenti all'opera del bardo non finiscono qui: infatti, nel corso del film verranno fatte altre citazioni dall'opera shakespeariana, chiaro rimando al tema della follia su cui Jakubisko tornerà anche nel suo cinema a venire.

In Film as a Subversive Art, a proposito di Uccelli, orfani e pazzi, Amos Vogel scrive che lo spettatore si trova di fronte a “Un universo composto di quadri surrealisti e di azioni bizzarre […]. Questa commistione non convenzionale di fantasia e realtà, dolcezza e crudeltà, con un uso spettacolare di obiettivi distorcenti, macchine da presa sempre in movimento, colorazioni speciali e formati variabili dello schermo [è] un tour de force delirante”.

Jakubisko e il suo operatore Igor Luther ricorrono costantemente alla camera a mano, al grandangolo e più in generale a numerose soluzioni che svelano i procedimenti di messa in scena. Per molti versi il film è anche un esempio maturo di metacinema (il cui primo livello si può individuare nella professione di fotografo di Andrej, che verrà “imitato” da Yorick nel finale in cui immortalerà il cadavere di Marta), arrivando a criticare all'interno della pellicola quello stesso movimento in cui, per convenzione, l’opera di Jakubisko è inscritta. Per il regista, infatti, la nová vlna, da movimento di rottura sta progressivamente divenendo un insieme di film segnati da pratiche consuete e abusate, simili proprio a quel cinema contro il quale ci si era opposti solo qualche anno prima. Una sequenza di Uccelli, orfani e pazzi è esemplare in tal senso. I tre protagonisti costruiscono un gruppo marmoreo che si trasformerà nell'imitazione del monumento Robotnik a kolcoznička, l'operaio e la kolchosiana, simbolo della Mosfilm sovietica dal 1947 in poi. Più avanti nello stesso film lo spettatore assiste all'incendio di una pellicola cinematografica sulla quale i protagonisti urinano urlando “Nová vlna!”. Un evidente atto di accusa contro un'ondata ormai ritenuta del tutto normalizzata.

Dopo Uccelli, orfani e pazzi e l'occupazione sovietica Jakubisko è costretto a una decina di anni di “esilio” dal cinema di finzione (durante questa pausa forzata realizza alcuni documentari “istituzionali” come La costruzione del secolo (Stavba storočia, 1973), sull'impianto che avrebbe condotto il gas dalla Russia alla Germania dell'Est) interrotti da Costruisci una casa, pianta un albero (Postay dom, zasad strom, 1980), film che rientra nei canoni della stanca produzione del cinema di stato dell'epoca. Solo dopo altri nove anni, nel 1989, con Arrivederci all'inferno, amici (Do videnia v pekle, priatelia), sembra riaffacciarsi (sia sotto il profilo stilistico sia sotto quello dell'intreccio narrativo) il regista controcorrente e dalla difficile collocazione visto all’opera negli anni Sessanta, quel cineasta che secondo Jerzy Skolimowski è “[…] un meraviglioso regista cecoslovacco. Uccelli, orfani e pazzi è un film straordinario, non è stato compreso, ma per me è l’essenza stessa della vita. Non è ciò che interessa agli americani – le autostrade, le grosse automobili – ma la vita interiore: è quella che conta” (5).

UCCELLI, ORFANI E PAZZI (Vtáčkovia, siroty a blázni), regia di Juraj Jakubisko, Cecoslovacchia, 1969, 78' (Second Run)

NOTE

(1) Mira Liehm, Il cinema dell'Europa dell'Est 1960-1977, Marsilio, Venezia, 1977, p. 81.

(2) Ivi. A proposito della distanza tra cinema slovacco e ceco, Jakubisko si esprime in questi termini: “Non ho mai sentito una differenza abissale tra Praga e Bratislava. Una volta ho dichiarato di non sentirmi un regista slovacco; piuttosto mi sento un regista della Slovacchia dell'Est. In questa zona la gente ha un grande temperamento, simile a quello degli italiani. Un temperamento molto diverso da quello degli slovacchi del centro o dell'Ovest”. Antonin J. Liehm, Closely Watched Films. The Czechoslovak Experience, Iasp, New York, 1974, p. 357.

(3) Andrej Obuch, La nová vlna sconosciuta, in Roberto Turigliatto, a cura di, Nová Vlna. Cinema cecoslovacco degli anni '60, Lindau, Torino, 1994, p. 189. A proposito del trio di Uccelli, orfani e pazzi Jakubisko sostiene: “Non mi interessano per la loro eccentricità. A loro modo sono dei caratteri tipici”: Juraj Jakubisko in Antonin J. Liehm, Closely Watched Films. The Czechoslovak Experience, cit., p. 356.

(4) Juraj Jakubisko in Ibidem, p. 357.

(5) Jerzy Skolimowski, Intervista di Michel Ciment e Bernard Cohn, “Positif”, 135, febbraio 1972.