Tanto il formato di Mommy è striminzito, tanta è, in maniera direttamente proporzionale, l’ampiezza, la profondità di questo film. I suoi tre personaggi si agitano come imprigionati nel formato 1×1 da cinema muto, o meglio, degli odierni cellulari. Notevole il cortocircuito simbolico operato da Xavier Dolan con questa scelta, simulando solo a tratti l’estetica approssimativa del video, e mai quella del muto. Mommy, in questo senso è solo apparentemente simile a J'ai tué ma mère, film d’esordio di Dolan, mentre ne è l'esatto rovescio. Un’opera minimale, claustrofobica, un dramma da camera che non si chiude mai in camera e nemmeno solo in interni, e che tuttavia è dominato da una (tele)camera dai tirannici formati ristretti. Un film versatile, polivalente. D’exploits (al plurale).

Un figlio, una madre, una vicina. Quest’ultima diventa amica intima della madre, una seconda madre amata dal figlio. Niente uomini, niente padri, quantomeno, “realmente” presenti. Mommy è un grande film sul dolore adolescenziale, sul malessere sociale ed esistenziale di tutti, su una contemporaneità che spinge all’alienazione, alla nevrosi. Nondimeno, è un’opera intimista sul rapporto tra madre e figlio, tema prediletto dal regista fin dagli esordi. Ma Mommy non si addentra nei territori dell’autobiografia come faceva J'ai tué ma mère: qui siamo nella proiezione, nel transfert. Qui l’interrogativo riguarda il rapporto cannibalesco, quasi amoroso e di dipendenza totale che lega una madre al figlio, e viceversa: Mommy è allora J’ai tué ma mère allo specchio. Il suo rovescio, come detto in apertura. Così facendo, Dolan riesce a dire per la seconda volta, e in maniera ancora più convincente, qualcosa di nuovo sul rapporto madre-figlio, uno dei temi più approfonditi dal cinema, e non solo.

Mommy è dedicato con amore (totale) alle madri che con il loro amore (totale) creano potenziali mostri egocentrici che cannibalizzeranno poi le donne da adulti. Le donne, due volte generose, e due volte vittime. Mommy è poi un grande film universale e atemporale sulla follia come momento estremo della condizione umana e, inversamente, sull'irreprimibile desiderio di umanità, amore e libertà, malgrado tutto e sopra ogni altra cosa. È anche un paradigma perfetto sull’assenza di prospettive e di orizzonti reali che un po’ tutti, a latitudini diverse, percepiamo.

Lavorando sulla forma, Xavier Dolan arriva a dare una rappresentazione plastica della dimensione cerebrale dell'alienazione. Lo spettatore si sente quasi soffocato, come fosse confinato in uno sgabuzzino, in una prigione, in una camicia di forza. Figlio diretto del Gus Vant Sant di Gerry, Elephant e Last Days, Mommy si muove nell’orizzonte senza futuro che quella trilogia comunica. Ma con le sue atmosfere cittadine, la sua natura autunnale, richiama anche titoli precedenti del regista di Portland, come Belli e dannati, dove l’indimenticabile “ragazzo di vita” interpretato da River Phoenix soffriva di crisi narcolettiche. A differenza di Van Sant, Dolan non filma mai paesaggi e climi assolati, "californiani", ma atmosfere malinconiche. E dopo l’eccellente Laurence Anyways (2012), ha forse abbandonato anche il glamour.

Il personaggio dell'adolescente protagonista, Steve, affetto dalla sindrome da deficit di attenzione e iperattività (sempre più diffusa ai giorni nostri), anela a una dimensione alta e poetica dell’esistenza, aspira a volare. Ed è nei momenti in cui questo desiderio viene messo in scena che il film prende slancio. Altrove, il ragazzo diventa una macchina implacabile, aggressiva, e il suo parlare, il suo guardare fisso, quasi spaventano. E si ride spesso, grazie anche alla parlata sincopata, isterica, e all’incredibile accento canadese dei personaggi che difficilmente troverà una resa adeguata nella versione italiana del film.

Dietro la rappresentazione di una dimensione psicologica e la denuncia della maniera in cui viene affrontata, Mommy è anche una metafora dell’egocentrismo ossessivo e totalizzante proprio delle generazioni più giovani. Ci siamo solo noi con le nostre manie, il nostro ego, monumenti di fragilità. La disperazione dell'adolescente odierno è la nostra, l’assenza di una linea d’orizzonte, la medesima. Siamo tutti soli, e siamo tutti uniti in questa condizione. La dimensione intimista di Mommy si eleva continuamente verso quella sociale e universale. Già nel precedente Tom à la ferme vi era una chiara connessione tra elementi esterni e spazio interiore, rappresentata dall’ampiezza delle distese agricole canadesi e dalla loro alienante piattezza. Nel finale, onirico, la metropoli rappresentata solo dalle sue luci, assumeva il valore di una liberazione. In Mommy abbiamo “solo” la rappresentazione di un adolescente (s)perduto nella propria psiche quanto nello spazio fisico di una provincia chiusa, umanamente e culturalmente povera. Il film è ambientato in Canada, ma potrebbe essere girato in molti altri posti, tutti caratterizzati dallo smarrimento paradigmatico di questo particolare momento storico, dei suoi sintomi patologici. Sintomi che stanno qui per sindromi: le sindromi del secolo, Weerasethakul insegna (si veda Syndromes at the Century).

Gli spazi fisici si confondono poi con quelli della forma-film, la quale a sua volta si confonde con quella mentale: Laurence Anyways era girato in formato 4:3; in alcune scene di Tom à la ferme – prevalentemente caratterizzate da violenza – si passava dal 1:85:1 al CinemaScope. Ora un percorso sembra chiudersi nel cinema di Xavier Dolan, e forse agli angusti spazi canadesi vedremo succedersi quelli statunitensi. Tanti sono stati i film, in questi anni, che in maniera diversa hanno trattato il tema della scomparsa della linea d’orizzonte, della speranza nel futuro. Mommy tuttavia è il primo a metaforizzarlo a tal punto sul piano formale, andando oltre il Van Sant di Gerry e Elephant. Il venticinquenne Dolan riesce in un'impresa più unica che rara: rinnovare il linguaggio cinematografico. Chi avrebbe mai pensato infatti che, nel 2014, fosse possibile osare uno stratagemma, mai visto prima a quanto ci consta, come quello di un personaggio che allarga con le proprie mani il formato del film, il suo quadro?

Mommy è dunque il primo film a essere un urlo, quasi fisico, volto ad ampliare il (nostro) formato, cioè il (nostro) quadro delle cose. Per far tornare nella visuale comune la linea d’orizzonte. Grazie a un urlo lanciato (per tutti noi) da un adolescente pazzo. Pazzo?