“I think there is a proper way to know how to tell stories – but I don’t think there is a proper age to start telling them”

(Xavier Dolan)

 

Prima di sciogliere i bordi del quadro nei sorprendenti sconfinamenti di Mommy, Xavier Dolan aveva già coltivato il suo gesto eversivo lungo i film precedenti. Rivisti alla luce dell’ultimo, questi si rivelano le tappe di un percorso di sperimentazione sull’impossibilità di imbrigliare la vita vera – un’esistenza che per Dolan, ma in fondo per tutti noi, necessita di essere pensata come straordinaria – nel perimetro di un racconto per immagini. Sin dall’esordio J’ai tué ma mère (2009), il cineasta ha messo alla prova la flessibilità di registri, generi e procedimenti tecnici per dare una forma alla materia incandescente di un’adolescenza trascorsa con la madre nella periferia di Montréal, in una cellula familiare esplosa e mai ricomposta. Ma soprattutto ha provato a realizzare, attraverso il cinema, il sogno di fare della propria vita un’opera d’arte, senza che questo stridesse con la consapevolezza di appartenere a un tempo privo di aura. Un’idea tanto più inattuale se si considera il romanticismo dell’aspirazione di Dolan a farsi autore totale delle proprie opere – di cui, oltre alla regia, firma il montaggio, la scelta delle musiche, la concezione di décor, costumi, scenografia e acconciature, e talvolta persino i sottotitoli in lingua inglese – in netta controtendenza rispetto a un’epoca di web e cultura partecipativa.

In questo senso la sua biografia – diciassettenne e ribelle fugge dalla casa materna e dalla scuola pur di arrivare a scrivere il primo film, finanziato con i soldi guadagnati nella precedente vita di attore-bambino – potrebbe più facilmente appartenere alla sceneggiatura di un film di François Truffaut. E nonostante Dolan neghi qualsiasi influenza di I 400 colpi su J’ai tué ma mère, è impossibile non cogliere l’affinità – non solo sonora – Dolan/Doinel. La rabbia archetipica portata sul grande schermo dal quattordicenne Léaud viene assunta completamente dal personaggio di Hubert, che mente a scuola dichiarando morta la propria madre. E come la filmografia di Truffaut fissa Doinel ogni volta in uno stadio diverso del suo sviluppo fisico, così Dolan radicalizza il gioco dell’alter ego, mettendo in scena direttamente il proprio corpo in tre film che disegnano un ampio arco di trasformazione fisica ed emotiva della persona e del personaggio.

È infatti il corpo attoriale la vera misura dell’insufficienza del quadro cinematografico e della tensione del regista a spingere ogni volta di più sui suoi confini. Non a caso, Dolan si presenta per la prima volta ai critici cannensi e agli spettatori in tutta la sfrontatezza dei suoi diciannove anni, aprendo J’ai tué ma mère come un patinatissimo autoritratto in bianco e nero, con tanto di ciuffo impertinente alla Jean Cocteau. Già da questi bagliori di narcisismo adolescenziale intuiamo l’irrequietezza di una figura che non può essere contemplata per intero e che sente tutta l’insufficienza del campo visivo entro cui è collocata. “I am big, it's the pictures that got small”, avrebbe detto in proposito Norma Desmond. Anche nel successivo Les amours imaginaires (2010), i corpi rivali di Dolan/Francis e di Marie sembrano patire gli spazi angusti dell’inquadratura entro cui devono mettere in scena la propria versione dell’amour fou. Spesso decentrate, le loro figure ristabiliscono un precario equilibrio solo in coppia, salvo tornare a contendersi letteralmente la scena all’apparire dell’angelo pasoliniano Nicolas. E non è solo l’insistenza sui piani ravvicinati a denunciare il desiderio dei personaggi di esondare i bordi dell’immagine, ma anche la loro ricerca di trasfigurazione in figure mitiche del cinema classico hollywoodiano: Francis richiede al barbiere un taglio che sia la copia esatta di quello portato da James Dean, mentre Marie emula sin nei minimi dettagli l’icona Audrey Hepburn.

In questi primi film Dolan sembra rintracciare una soluzione ai limiti del mezzo cinematografico nella ricerca sulle qualità pittoriche dell’immagine, attraverso l’uso dei colori e l’esaltazione delle forme. Aspetto che lui stesso conferma nelle interviste rilasciate in quel periodo, dove prende le distanze da qualsivoglia filiazione cinefila – salvo quella vansantiana, impossibile da celare – ribadendo come i suoi veri riferimenti appartengano al mondo della letteratura e dell’arte pittorica. Pur passando da un soggetto tabù come quello dell’uccisione metaforica della figura materna a uno decisamente leggero come il duello amoroso tra due giovani hipster di Montréal, Dolan mantiene l’interesse per la rappresentazione della sensualità vitalistica dell’età giovanile. Destinata a liberarsi nell’associazione tra corpo e opera d’arte: basti pensare alla scena del drip painting in J’ai tué ma mère, dove Hubert/Xavier fa l’amore con il compagno sul pavimento invaso dalla pittura, o a Les amours imaginaires, dove la soggettiva di Francis sull’oggetto del desiderio Nicolas finisce per confondersi con la memoria indelebile dei disegni erotici di Jean Cocteau. Anche l’uso ricorrente di step framing e slow motion sembra andare in questa direzione, frenando lo scorrere delle immagini perché queste diventino veri e propri quadri destinati a una fruizione contemplativa.

Il percorso di crescita artistica di Dolan è segnato dalla sua assenza come attore protagonista nell’opera fiume Laurence Anyways (2012). Si tratta di una scelta che rivela l’allontanamento definitivo da un cinema di stampo diaristico e il superamento dell’urgenza di autorappresentazione tipica dell’adolescenza. Dolan continua dunque a raccontare la vita, ma togliendole l’aggettivo possessivo. Questo gli permette di mostrarsi di nuovo su grande schermo, con Tom à la ferme (2013), secondo una modalità profondamente differente: smessi i panni dell’artista bohémien, Dolan non è più la copia di se stesso, bensì un “vero” personaggio di finzione. Per disinnescare il personalismo dei primi film, il regista si affida alla cornice universale di un genere, il thriller psicologico, che regola i suoi ingranaggi narrativi sull’ambiguità identitaria dei protagonisti. Benché declinata dal punto di vista sessuale, tale indeterminatezza si riflette anche sulle scelte estetiche ed espressive adottate. Mentre in J’ai tué ma mère e in Les amours imaginaires l’alternanza tra cultura alta e gusto camp si traduceva in un gioco di chiaroscuri stridenti, che talvolta facevano prevalere la riflessione metadiscorsiva sul piacere del racconto, qui accade qualcosa di diverso. Dolan continua a ragionare sul dispositivo, ma invece di testarne i limiti, prova a superarli per preservarne il potere affabulatorio. Così, ad esempio, se il primissimo piano, l’inseguimento e il corpo a corpo sono alcune delle figure principali del thriller, ecco che per potenziarne la carica emotiva, ormai affievolita dai troppi corsi e ricorsi lungo la storia del cinema, il regista lavora sull’aspect ratio dell’immagine, strozzando lo spazio attorno ai personaggi per rafforzare la condizione di scacco vissuta da Tom.

Affacciarsi alla maturità, anagrafica e artistica, significa dunque per Dolan affrancarsi da un cinema autoriflessivo e abbracciare pienamente la forma del racconto, con tutti i rischi che questa comporta. Da qui, la sua narrazione non potrà che (ri)cominciare così come era iniziata, da una madre e da un figlio.