Verso la fine della Seconda guerra mondiale, i soldati giapponesi nelle Filippine sono ormai ridotti di numero e stanno soccombendo per mano della resistenza locale e dell’offensiva americana. I pochi sopravvissuti, tra cui il soldato Tamura, interpretato dallo stesso Tsukamoto, hanno ormai perso ogni barlume residuo d’umanità.

In un momento difficile e critico per la società nipponica, che ancora non ha smaltito i postumi di Fukushima e che si appresta a ripristinare un esercito vero e proprio – dopo la Seconda guerra mondiale le forze armate del paese erano state declassate in un corpo di autodifesa  – il regista ribelle e corrosivo incarna le inquietudini diffuse, decidendo di riadattare per il cinema il romanzo pacifista Nobi – La guerra del soldato Tamura, scritto nel 1951 dal romanziere Ōoka Shōhei, basato sulla propria esperienza di soldato di stanza nelle Filippine, dove fu fatto prigioniero. Una prima trasposizione per il grande schermo è stata fatta dal regista Ichikawa Kon nel 1959. Tsukamoto, volontariamente o involontariamente, si pone agli antipodi del primo Nobi cinematografico, ne prende inevitabilmente le distanze. Il suo percorso artistico lo porta in tutt’altra direzione. Il film di Ichikawa era il gemello del suo più celebre (in Occidente) L’arpa birmana. Entrambi riflettevamo quella concezione umanista tipica degli intellettuali giapponesi del dopoguerra, che li portava ad abiurare una visione nipponica del mondo per abbracciare ideali illuministi di matrice occidentale. La condizione (dis)umana del regista di Tetsuo è molto differente. L’uomo è fatto di carne pulsante, i soldati sono ammassi di materia organica pronti a spappolarsi in sostanza informe, l’umanità è rappresentata da brandelli di cadaveri, corpi amputati, maciullati e in putrefazione, teste mozzate appese a un muro. Il cinema delle mutazioni cronenberghiane del corpo di Tsukamoto, celebrato con Tetsuo, porta ora a nuove contaminazioni e infezioni, la tubercolosi e il cannibalismo di carne umana che diventa interscambiabile a quella di scimmia. Il corpo umano non si ibrida più, o non ancora, con il metallo: tutto è organico.

Tsukamoto elabora, a partire dal romanzo, anche una riflessione sulla presenza della natura. In un primo momento rappresentata da frutta, fiori, il tripudio di un paradiso tropicale. E poi quelle lucciole tanto care alla cultura nipponica, simbolo dell’anima e della reincarnazione dopo la morte, che rimangono a dare speranza persino in un film triste come La tomba delle lucciole. Se la natura è un’estensione dell’uomo, della sua anima, come tipicamente nella cultura orientale, cosa resta dell’uomo quando la natura viene rappresentata, nel procedere del film, dalle sanguisughe divorate dai soldati spinti dalla fame? Il paradiso vira nel corso del film in un inferno. Il fiore e il cervello, Buddha e la chiesa cristiana, dove una dei due amanti viene uccisa per sbaglio: nulla, ormai, può più fornire rassicurazioni, certezze o consolazioni. Tsukamoto, con quella macchina a mano schizofrenica, sempre mossa e disturbante, che si porta dietro dal precedente Kotoko, con quei raggelanti primissimi piani dell’impotente Tamura, ci fa sprofondare in un abisso senza fine.

Nel cinema giapponese recente c’è un film che si avvicina molto a Nobi: si tratta di Caterpillar dell’altro spirito corrosivo Wakamatsu Koji, che decideva anche lui di mettere il dito nella piaga mai rimarginata nella coscienza nipponica della Seconda guerra mondiale. E lo faceva mettendo al centro un corpo amputato, senza arti, quello di un tenente reduce di guerra. Quello di Wakamatsu era un attacco frontale a un sistema di valori, nazionalisti, militareschi, patriarcali. Per Tsukamoto invece la condizione umana è quella dei soldati che sono stati costretti a far la guerra senza volerla. Gli uomini sono pedine pronte per il tritacarne.