Una giovane studentessa viene rapita da un manipolo di uomini e soffocata con del nastro adesivo nero intorno al volto. Un anno dopo la sua morte, scatta la vendetta ed entra in scena un commando di vigilanti mercenari, le Ombre, che inizia la sua opera di rivalsa nei confronti dei responsabili dell'omicidio. "Uno a uno", gli assassini e i mandanti dell’omicidio vengono prelevati e portati in località segrete, per poi essere torturati e costretti a scrivere e firmare con la propria mano insanguinata una confessione di colpevolezza.

Come affermato senza mezzi termini dallo stesso Kim Ki-Duk, l'efferata uccisione della ragazza è una metafora del marciume e della corruzione che affligge il proprio paese. A giudicare da questa dichiarazione preventiva, è chiaro come il regista sia animato da una rabbia autentica e sentita nei confronti dello stato delle cose che intende denunciare. Si palesa dunque la volontà di svelare le tensioni del tessuto sociale attraverso scenari in cui non ci sono più ne buoni ne cattivi, ma piuttosto teatri di crudeltà in cui si manifesta la violenza della reversibilità della regola, che a sua volta disinnesca la pulsione vendicativa, poiché tutti gli uomini sono imbrigliati nelle varie ramificazioni del potere. Tale messinscena di aguzzini e torturati diventa perciò l’allegorico processo alla Corea del Sud come sistema capitalista malato e disumano, senza apparente scampo, in cui gli uomini hanno sviluppato una tendenza a subire piuttosto che a reagire, evitando a tutti i costi ogni assunzione di responsabilità, tanto da suscitare la risata biliosa di uno dei personaggi che esclama disperato: "Almeno noi siamo meglio della Corea del Nord!".

Ci si imbatte così nel primo film esplicitamente “a tesi” del regista, in cui ogni elegia è abiurata e l’unica cosa che conta è pervenire alla prosaica Verità. Ma il cinema di Kim Ki-Duk è così esacerbato nel suo conflitto stilistico da rivoltarsi contro se stesso e diventare, paradossalmente, costrittivo. I personaggi, infatti, sono completamente irreggimentati all’interno della struttura della società coreana che devono rappresentare ai fini diegetici, ed ogni connessione emotiva tra loro e lo spettatore è esclusa. L’uso della violenza reiterata (attraverso le torture e i soprusi che subiscono tutti i personaggi) anestetizza piuttosto che amplificare la propria carica sovversiva, e finisce per collassare definitivamente nella provocazione autocompiaciuta, persino macchiettistica. L’intero dispositivo filmico vorrebbe farsi macchina celibe ma scade in una disarmante prevedibilità, veicolando una serie di imput che non si allargano mai a vere e proprie riflessioni, e la velleità di realizzare un quadro sociale a 360 gradi si riduce a un formulario di didascalie e proclami retorici. La verbosità dissipa ogni silenzio e il nucleo tematico si estende a livelli di rarefazione che superano quelli di Moebius, dove invece erano i dialoghi a essere banditi. Kim Ki-Duk raggiunge in questo senso un punto di non ritorno all'interno della propria filmografia.

“Chi sono io?” è la domanda posta all’inizio dei titoli di coda. Domanda (retorica?) che rivela tutta la sua ambiguità, dato che la si potrebbe anche intendere come una ricattatoria colpevolizzazione dello spettatore, un esplicito suggerimento affinché individui la “giusta” chiave di lettura del film e l’esistenza di più livelli narrativi. Ma se si considera la domanda come dichiarazione di disidentificazione, di slittamento di personalità, forse è lecito ritenere che Kim Ki-Duk non sia ancora del tutto pacificato con se stesso, e che dunque ci sia ancora speranza di superare quest'impasse artistica ed evitare l’arroccamento (o annullamento) definitivo in un cinema che vorrebbe essere primordiale, di pancia, ma di cui ormai non c’è quasi più nulla da sviscerare, se non il vuoto stilistico, per chi lo voglia. 

ONE ON ONE/Il-dae-il, regia di Kim Ki-duk, Corea del Sud 2014, 122'.