Nella seconda metà degli anni Sessanta, di fronte al rischio di un attacco sovietico, Mao Zedong fece trasferire numerose industrie pesanti e militari nella Cina occidentale, in un’area rurale caratterizzata da condizioni ambientali ed economiche particolarmente sfavorevoli. Molti abitanti delle grandi città, come Pechino e Shanghai, furono costretti a lasciare le proprie case e le proprie professioni – spesso intellettuali – per andare a lavorare come operai in queste fabbriche. Il padre di Wang Xiaoshuai era uno di loro, e non stupisce, dunque, che gli anni trascorsi tra gli altipiani della provincia dello Guizhou abbiano così profondamente segnato la sua poetica e il suo immaginario.

Il regista aveva già affrontato in ottica semiautobiografica questa pagina di Storia nei precedenti Shanghai Dreams (2005) e in 11 Flowers (2010). Se nel primo film si dava spazio al tema del nostos, dell’agognato ritorno alla città da parte di un nucleo famigliare già lacerato dalla logica del conflitto, nel secondo veniva tracciato il ritratto crepuscolare di un’infanzia vissuta al tramonto della Rivoluzione culturale (1966-1976). Red Amnesia, presentato in concorso a Venezia 71, rappresenterebbe dunque, nelle intenzioni del regista, la chiusura di una trilogia sulle conseguenze psicologiche del progetto di decentramento produttivo maoista chiamato Terzo Fronte.

Condotto dalla straordinaria interpretazione dell’attrice pechinese Lü Zhong nel ruolo di Deng, un’anziana madre di famiglia di Pechino alle prese con un presente che non è in grado di comprendere e un passato che improvvisamente riaffiora tra le pieghe della memoria, il film, a differenza delle due pellicole precedenti, è ambientato completamente nella contemporaneità. Le cicatrici emotive lasciate dalla Rivoluzione culturale vengono così analizzate alla luce del tempo che è trascorso: più di quarant’anni durante i quali il senso di colpa di chi ha salvato se stesso a spese di qualcun altro si è sedimentato in maniera irreversibile. Red Amnesia è dunque l’ambiziosa dissezione di un rimosso individuale che si espande fino a includere la dimensione collettiva della resa dei conti della Cina con la propria Storia. Così, la ricostruzione del passato non passa attraverso il profilmico: non si fa ricorso al flashback con Guardie Rosse, altoparlanti che tramettono slogan e scene di violenza fisica, perché tutto il periodo storico vive direttamente attraverso il personaggio di Lu, con la sua espressione dolente, i suoi modi di dire, la sua mentalità all’antica e le sue piccole ossessioni.

Wang Xiaoshuai, in realtà, ci conduce al cuore della questione storica molto tardi, a circa mezz’ora dalla fine del film. La sua scelta radicale, da più parti segnalata come “erronea”, rivela in realtà un meccanismo narrativo perfettamente aderente alla fantasmizzazione della colpa che nella Cina contemporanea continua a creare attriti tra le vecchie generazioni cinesi e quelle più giovani. Non a caso il film si apre sulle note del dramma sociale di impianto realista, con la descrizione della solitudine di una donna appena rimasta vedova che si muove per le strade della metropoli per portare da mangiare ai propri figli, nonostante questi siano ormai adulti. Nell’incapacità di accettare l’emancipazione e la diversità della propria progenie – il figlio minore, ad esempio, è omosessuale e Deng continua a fingere di non saperlo – si legge in controluce la problematica convivenza tra chi ha conosciuto la rigidità ideologica di ieri e chi è a suo agio nella liquidità sociale di oggi. E come i figli di Deng rifiutano il cibo che questa prepara loro ogni giorno, così la madre della stessa, che soggiorna in un ospizio, è riluttante a farsi imboccare dalla figlia: non sono solo i genitori a non sapersi prendere cura dei figli, ma gli stessi figli a essere impotenti di fronte all’indebolirsi dell’autorità genitoriale. Deng si confronta nella semplicità del proprio quotidiano con una modernità che procede a passo elevato, lasciandola inesorabilmente indietro, proprio come le automobili che sfrecciano per le strade di Pechino mentre lei arranca a piedi, o la vasca per il pediluvio – unica sua concessione al piacere – che da un momento all’altro smette di funzionare.

Tuttavia, quello che sembrerebbe un racconto verista o un’indagine socio-antropologica sulla vita nelle metropoli cinesi contemporanee sbanda improvvisamente verso il mistero e la detection quando le telefonate anonime ricevute dalla donna si fanno più frequenti. E qui Red Amnesia, oggetto cinematografico di difficile identificazione, diventa pura ghost story, con l’inserto delle conversazioni che Deng tiene con il marito defunto e con l’apparizione nel suo quotidiano di un ragazzino silenzioso, che è solito penetrare furtivamente nelle abitazioni altrui. Questa doppia presenza spettrale segna un avvicinamento della nostra posizione di spettatori al personaggio: non siamo più semplici osservatori esterni alla narrazione, tenuti a distanza dai piani medi dominanti, ma partecipiamo con Deng alla ricerca di una soluzione all’improvvisa indecidibilità delle presenze che la circondano. L’amnesia, da condizione esistenziale propria di Deng, diventa così una modalità generalizzata di guardare alle cose, uno stato di confusione che trova nell’allucinazione l’unica modalità per far dialogare il prima e il dopo, la vita rurale e quella cittadina, i padri con i figli. I fantasmi invadono la mente così come i piccoli ladri si insinuano nell’intimità domestica, che pareva l’ultima via di scampo per Deng.

Il passaggio successivo è allora quello di inseguire queste presenze soprannaturali per vedere sin dove possano condurre. Proprio in coincidenza con questo punto la traiettoria del film devia un’altra volta in maniera brusca, spingendo Deng nel cuore del suo trauma. In quella fabbrica dispersa della campagna che ora è un corpo sventrato, l’inquietante esoscheletro di un’utopia rinnegata. Durante la passeggiata tra le rovine in piano sequenza, il tempo subisce una dilatazione tale da distorcere ulteriormente la percezione del personaggio, ed è proprio in questo punto che tutte le incongruenze drammaturgiche paiono assestarsi. Perché la desolazione e la lentezza di questi luoghi lontani dalla città sono speculari al dinamismo e alla frenesia di Pechino, proprio a causa dei processi migratori indotti a partire dal movimento del Terzo Fronte. E perché il punto in cui Deng arriva è esattamente quello da cui era partita, come suggerisce anche il ritorno dell’immagine del villaggio abbandonato all’inizio del film.