Il 2017 non sarà un anno come gli altri, per la Russia, ma il centenario della Rivoluzione d’Ottobre. Se, a prima vista, lo spazio cronologico scelto da Alexei German jr. per collocare Pod elektricheskimi oblakami (Under Electric Clouds) può sembrare un pretesto al fine di esplorare passioni e contraddizioni del popolo russo e della sua storia, ad uno sguardo più attento ci si accorge come l'affresco smarginalizzi i confini del paese natale del regista e si occupi di una porzione ben più ampia d'umanità. I relitti del comunismo (le statue di Lenin, i discorsi di Gorbacev) sono accostati sin dalle prime battute a quelli del capitalismo (la carcassa di un grattacielo), in una critica a due facce della stessa medaglia. Lo stallo, non solo del popolo che ha vissuto sulla propria pelle la frantumazione del modello comunista ma di tutta la post-modernità, mette in crisi il concetto di “Fine della Storia” teorizzato da Francis Fukuyama e negato a più riprese nel film («La Storia non è finita!»).

Una guerra (mondiale?) imminente ma impercettibile aleggia sul film. La paura e, al tempo stesso, la rassegnazione dei personaggi rivelano piuttosto l'inquietudine per un incedere a tentoni tra le tenebre del presente, camuffato sotto le spoglie di un nebbioso futuro.

È qui che si posiziona il film del regista russo, nella melma della post-modernità, come agente fluttuante impegnato in un andirivieni tra passato e futuro, nel movimento simultaneo del Tempo, che Pod elektricheskimi oblakami oltrepassa per poi farsi raggiungere nuovamente. La struttura a-narrativa ne conferma l’agitazione; i sette capitoli, tanti quanti i giorni della teologica creazione del mondo, lasciano allo spettatore imponenti edifici incompiuti, musei invisibili ma pronti a essere abbattuti, case da smobilitare, statue e costruzioni indistinguibili dalle macerie. Sono le incessanti circolazioni dei personaggi, attorno e attraverso gli spazi obliati, avanti e indietro nel tempo filmico, dentro e fuori l’inquadratura – quest’ultimo movimento ricorda chiaramente quelli degli ultimi due film del padre (Khrustalyov, mashinu!, 1998; Trudno byt’ bogom, 2013) – a colmare le aride distese lasciate dalla narrazione.

Impossibile, inoltre, evitare di menzionare, in questa costruzione, il capolavoro di Béla Tarr, Sátántangó (1994): la divisione in capitoli e la metaforizzazione della creazione del mondo; il cortocircuito dovuto alla ripetizione lungo l’elastico narrativo di medesimi momenti – nel film di German jr. del tutto marginali ai fini del racconto – e incontri; le strizzate d’occhio a Malevich, continuamente evocato nel film di Tarr ed evocato in quello di German jr.; sono tutti elementi fondativi tanto per l’uno quanto per l’altro.

Ogni soggetto apparentemente egemone all’interno dei singoli capitoli, si dimena tra azioni evanescenti, atteggiamento attorno al quale il regista ricostruisce varietà, complessità e sfumature dell’intimità umana. Ed è in questa scelta-movimento che egli attinge a piene mani dall’impressionismo e da Cézanne in particolare: i continui slittamenti, grazie ai magistrali piano-sequenza e al montaggio, dei diversi angoli di sguardo polverizzano il principio fondante della prospettiva classica, l’unicità del punto di vista («Dipingere non significa copiare servilmente un oggetto, ma cogliere un’armonia tra diverse relazioni» Paul Cézanne).

Per dribblare la possibilità di dar vita a personaggi monocordi, German jr. recide tutti i fili del discorso narrativo, lasciandoli sfaccendati. Un operaio Kirgisi trova abbandonato il cantiere per il quale è venuto in un paese del quale non conosce nemmeno l’idioma; i due fratelli ereditieri finiscono intrappolati in trattative che non gestiscono personalmente; un agente immobiliare sogna una nuova vita nel passato; una guida sceglie di proteggere il museo nel quale lavora dal pericolo di chiusura – museo tuttavia già eclissato nel film; l’architetto dell’edificio incompiuto è ormai dominato da piaceri effimeri.

Tuttavia la paralisi non è la conseguenza di un pessimismo che ha ormai preso il sopravvento ma rientra nell’universo degli atteggiamenti dostoevskijani, dove i personaggi, nonostante abbiano a che fare con urgenti scelte etiche e morali, si ritrovano interamente assorbiti dallo sforzo per enucleare un interrogativo torbido, ma di vitale importanza. In questa “idiozia” si rispecchia lo spettatore che, nonostante la nebulosità di Pod elektricheskimi oblakami, rimane vibrante, elettrico; in questa “idiozia” risiede la via di fuga dall’inerzia di un futuro già presente, presente ostinato a non volersi più voltare.