Fra i vari passaggi memorabili della famosa intervista con Truffaut, uno dei più noti è quello in cui Hitchcock espone la differenza fra sorpresa e suspense. Sorpresa, dice il cineasta britannico, è quando assistiamo a un dialogo e una bomba esplode all’improvviso. Suspense, al contrario, è quando lo spettatore viene informato della presenza della bomba sotto il tavolo dei due che conversano e il regista fa in modo di gestire questa informazione per generare una stato ansiogeno crescente. La sorpresa è tipica del giallo, nella forma classica del whodunnit, in cui un investigatore di professione o improvvisato ricerca per tutta la durata della storia l’identità del colpevole che viene rivelato solo alla fine. La suspense è invece tipica del thriller, che gioca apertamente con la cognizione e le angosce dello spettatore attraverso il giusto quantitativo di informazioni sulla storia.

Al decimo film, abbiamo imparato a capire che David Fincher conosce perfettamente la nota distinzione hitchcockiana, e che i suoi thriller (tanto quelli che anticipano l’identità dell’omicida quanto quelli che la ritardano fino al finale e oltre, come in Zodiac), lavorano in maniera meticolosa sulla concatenazione fra scoperta improvvisa e angoscia crescente. Gone Girl non fa eccezione. Anzi, qui come in nessun altro dei suoi film precedenti il gioco fra sorpresa e suspense appare più evidente. È stato da tutti evidenziato come il film sia diviso in due parti. Nella prima ora gli elementi vengono dispiegati a poco a poco e lo spettatore sa sempre meno di quello che sanno i personaggi, oscillando continuamente fra le ricerche di Nick (Ben Affleck) e la messa in scena delle pagine del diario della moglie scomparsa Amy (Rosamund Pike). Nel secondo tempo vengono invece svelate tutte le carte e lo spettatore ha all’improvviso pieno accesso tanto ai pensieri di Nick che ai piani di Amy. Riassumendo: se la prima parte pone la domanda “Nick è un wrong man ingiustamente accusato oppure sa più di quanto non dica sulla scomparsa della moglie?”, la seconda si interroga sul destino di entrambi i coniugi: “Chi dei due sopravvivrà?”. Su entrambi gli interrogativi aleggiano i dubbi coniugali pronunciati da Nick in apertura del film: “A cosa stai pensando? Che cosa provi? Che cosa ci siamo fatti?”.

Per un cineasta formatosi fra reparti di effetti speciali ed esperimenti con pubblicità e videoclip, il tempo e la velocità sono elementi essenziali, necessari a costruire in pochi minuti l'atmosfera e a catturare l'attenzione di chi guarda. Non è un caso che il regista di Denver ci abbia abituato fin dai suoi primi film a giocare con l’arte dei titoli di testa. E anche quando non ci regala dei credit iniziali a effetto, affascinanti e suggestivi come quelli di Panic Room, chirurgici ed enigmatici come quelli di Seven e Zodiac o violenti e magnetici come quelli di Millennium, predispone comunque i temi e le suggestioni chiave fin dall’incipit. Gone Girl cerca una forma di suspense più sottile, ma l’effetto ricercato non cambia. Il film si apre con una scena di una tenerezza sinistra e inquietante: una mano che accarezza la nuca di una donna avvolta in una luce bluastra, le parole suadenti ma estremamente brutali della voce narrante, la serie di note elettroniche prolungate e riecheggianti della colonna sonora e un insieme di vedute fugaci che seguono il risveglio di una cittadina di provincia del Missouri. È un inizio molto simile a quello di The Social Network, vedute del campus di Harvard comprese. Certo, lì il prologo era più lungo e occupava tutto il dialogo della rottura fra Mark Zuckerberg ed Erica Albright, ma l'impianto e gli elementi esposti coglievano in nuce tutti i tratti salienti del film, tanto da riapparire (proprio come le domande poste da Nick sullo stato del matrimonio) nell’ultima immagine prima dei titoli di coda. I due film sono in realtà più vicini di quanto si possa immaginare guardando solo alle loro fonti differenti (storia vera quella di The Social Network; romanzo di genere quella di Gone Girl). E lo sono perché quella fra vero e falso è una contraddizione solo apparente che Fincher risolve positivamente in tutti i suoi film, e che lo rende il regista più contemporaneo di tutto il cinema americano.

Cosa significa essere un regista realmente contemporaneo? Nell’era dell’avanguardia delle serie televisive e dello storytelling imperante significa prima di tutto dare una forma attraente e stimolante a delle intriganti, necessarie da godere spoiler-free (quanti articoli abbiamo letto su Gone Girl che avvertivano della presenza di spoiler? E quante altre volte è capitato negli ultimi anni di leggere un articolo che cominciasse con questa stessa avvertenza a proposito di un film anziché di una serie televisiva?). Significa poi saper prestare attenzione al mondo digitale, ai processi in atto e alla velocità che li contraddistingue, senza aver bisogno di critiche esagitate o di facili esaltazioni. Fincher (anche grazie a Gillian Flynn, autrice del romanzo e della sceneggiatura) costruisce un film che forza lo spettatore a discutere e a prendere una posizione rispetto alle sue dinamiche sia interne (coniugali e di genere) che esterne (collettive e mediatiche). Assieme, autrice e autore portano la guerra dei sessi dalla commedia brillante al thriller paranoide passando attraverso domande esistenziali su stigmatizzazioni e bias cognitivi rivolti verso Nick e, in particolare, verso Amy. La vera ribellione di quest’ultima è quella di una donna che se proprio non ha possibilità di smarcarsi da un personaggio ("Amazing Amy" per i genitori; "Cool Girl" prima e poi "Stupid Bitch" per il marito), decide di essere sotto i riflettori a modo suo. Se il circo mediatico la vuole "America’s Sweetheart", ne sarà un’incarnazione combattente, una rappresentazione a metà fra una survivor dei reality e la Carrie di Stephen King.

È vero, rispetto sia a The Social Network che a Millennium, c’è una presenza scarna di device e di computer nella trama di Gone Girl per un regista così attento alle culture digitali. Eppure, nonostante il diario compilato a penna e una rappresentazione dei media che si concentra su telegiornali e talk show vecchia maniera, il senso paranoide e cospirazionista che pervade il film è perfettamente contemporaneo. Il cinema di Fincher, infatti, è contemporaneo perché non offre solo spettacolo e storytelling, ma presenta a chi lo guarda una sorta di macchia di Rorschach dove ognuno vede un po’ quello che vuole, a rivelare angosce e tensioni latenti. È per questo che Gone Girl è stato interpretato come un film sulla crisi della coppia, sulla tomba del matrimonio, sul neo-femminismo, sulla vecchia misoginia, sugli effetti della recessione e sulla nostra ansia paranoide a sbattere un mostro in prima pagina.

Fincher non è a suo agio solo con macchine digitali, montaggio veloce e immagini fulgenti, quanto con trame enigmatiche che rovesciano la razionalità e la serenità come vuole la fame di storie d’epoca contemporanea. Non è un caso che la poliziotta Boney, poco convinta della colpevolezza di Ben Affleck, dica al collega più giovane di non aver mai creduto all’espressione “la risposta più semplice è spesso quella corretta”. Non c’è modo migliore per rompere il Rasoio di Occam che dimostrare che non esistono verità e spiegazioni semplici, ma solo accumuli di indizi.

L'amore bugiardo – Gone Girl (Gone Girl), regia di David Fincher, USA, 2014, 149'