Dopo l’esperienza americana di Jimmy P. (2013), Arnaud Desplechin torna alla natia Roubaix sulle tracce del suo storico alter ego Paul Dédalus/Mathieu Amalric, protagonista di Comment je me suis disputé… (ma vie sexuelle) (1996). A distanza di quasi vent’anni, del dottorando in crisi esistenzial-sentimentale del capitolo precedente sembra non essere rimasto molto. Paul è ora un uomo maturo e avviato a una carriera di successo, con un incarico prestigioso da intraprendere in Francia, dopo un soggiorno nel Tajikistan.

L’idea di rifarsi a un film che ha segnato profondamente il 1996, indicando ad altri giovani registi e interpreti francesi una possibile strada da percorrere, permette di rileggere la storia di Dédalus come un esempio di epica contemporanea, che sotto la superficie della cronaca sentimentale si propone come opera mondo. Sono innumerevoli, infatti, i tratti che caratterizzano Trois souvenirs de ma jeunesse in questo senso: la digressione come cifra narrativa, che tende a sottomettere l’intreccio alla disorganizzazione e all’incoerenza; la polifonia, la presenza di più racconti all'interno dello stesso racconto; la rievocazione costante del passato; il ricorso allo stream of consciousness, qui affidato a una voice-over; una diegesi che potrebbe protrarsi all’infinito (anche se non ci troviamo più di fronte alla monumentalità delle 2 ore e 58 minuti di Comment je me suis disputé… (ma vie sexuelle)). Non è un caso che il sottotitolo del film faccia riferimento a una mitologia inattuale e a sentimenti romanzeschi come l’ambizione all’eroismo: “Les Arcadies” rinvia proprio all’utopia, e al sogno di un’esistenza fuori dalla norma coltivato dal giovane Paul. Durante le riprese, nel corso di un’intervista, Desplechin aveva peraltro esplicitato le proprie intenzioni. “Scrivere” un libro con la macchina da presa, seguendo la nota definizione di romanzo contenuta ne Il rosso e il nero: «[…] uno specchio che passa per una via maestra e ora riflette al vostro occhio l’azzurro dei cieli ora il fango dei pantani».

Articolato in tre segmenti di lunghezza diversa, con l’ultimo a occupare tre quarti di film, Trois souvenirs de ma jeunesse si muove tra finzione e autobiografia, per concentrarsi sul percorso di Paul dai 16 ai vent’anni.

Il primo ricordo, consacrato all’infanzia, è una scheggia fulminea che continua a tormentare la memoria del protagonista. In poche inquadrature veniamo calati in uno degli angoli più oscuri del suo inconscio, rappresentato da una dimora vagamente hitchcockiana. Qui Paul bambino minaccia di ferire a morte sua madre con un coltello, pur di non farle oltrepassare con la sua follia la soglia dell’ala della casa destinata ai bambini.

La seconda parte del film è invece dedicata a un’esperienza singolare della sua adolescenza, quella di un viaggio nell’ex Urss al seguito di un amico. L’obiettivo è consegnare denaro e documenti falsi a una famiglia di ebrei sovietici. In questo episodio, Desplechin ricorre agli stilemi propri del cinema di genere, in particolare a quelli del film di spionaggio. Ma, prima che divertissement o decorazione, la visita alla famiglia di refuzniks (ebrei a cui non era consentito emigrare dall’Unione Sovietica durante la guerra fredda) è un elemento che dona profondità al film, ricordando come dietro alle piccole storie d’amore di Desplechin si aggiri sempre lo spettro della grande Storia. Anche il percorso di crescita dei personaggi riflette le fratture epocali del periodo, come ricorda Paul assistendo dallo schermo televisivo al crollo del muro di Berlino («C’était la mort de mon enfance»): la caduta del comunismo si fonde nella sua mente con i ricordi legati all’Unione Sovietica che evocherà di lì a poco.

L’avventura di Minsk risulta anche un momento fondativo nella maturazione del personaggio, perché è qui che questi ha modo di confrontarsi forse per la prima volta con la propria identità: paradossalmente, aderire a una causa e consolidare la propria posizione nel mondo si traduce per lui nell’esatto contrario, in uno sdoppiamento di personalità. In maniera del tutto incosciente Paul cede difatti nome, cognome e data di nascita a un coetaneo russo, perché questi possa raggiungere Israele con un passaporto contraffatto. Se un tale gesto viene compiuto in estrema leggerezza, e subito rimosso dallo scorrere frenetico delle emozioni giovanili, sarà la rigidità della burocrazia, anni dopo, a ricordare a Paul dell’esistenza di un altro Dédalus. Un altro se stesso con cui fare i conti, e allo stesso tempo un’incarnazione – anche se già defunta – della possibilità di essere qualcun altro e di liberarsi dal disagio del proprio stare al mondo.

Con la terza parte, prende avvio l’esplorazione dell’intimità di Paul. Il ragazzo ha lasciato Roubaix per studiare antropologia a Parigi; durante una delle sue visite ai fratelli e agli amici, conosce Esther, interpretata dall’esordiente Lou Roy Lecollinet. È qui che inizia un altro film, non più incentrato su una fase della vita (l’infanzia) o un episodio specifico (la gita in Russia), bensì su una persona, in una bizzarra tripartizione diseguale, dove la durata del singolo frammento rivela la diversa percezione del tempo nella memoria di Dédalus. Desplechin realizza finalmente il romanzo a cui ambiva, seguendo la lezione di François Truffaut: una voce narrante che indugia consapevolmente sui cliché del romance; scambi epistolari tra innamorati e testi letti guardando in macchina; soluzioni linguistiche del passato (come l’iris) che cristallizzano l’educazione sentimentale di Paul in una dimensione temporale indefinita. Pur rifacendosi a un tipo di racconto tra i più frequentati dal cinema francese – l’amore tra due adolescenti in ambiente borghese – Desplechin dimostra ancora una volta di saper filmare i moti dell’animo senza ricorrere necessariamente allo scavo psicologico. Al contrario, abbandona senza ansie di verosimiglianza i propri personaggi all’impazienza dei corpi, all’eccesso melodrammatico e alla diversione del comico. Proprio in questa rappresentazione della giovinezza cogliamo il valore di un’esperienza che è al tempo stesso reale – vissuta da Desplechin e narrata in forma diaristica – e per altri versi fantasmatica, totalmente idealizzata dal regista – che, infatti, essendo nato nel 1960, nel 1989 avrebbe avuto dieci anni di più rispetto a Paul. Desplechin mette dunque in scena l’adolescenza come costruzione mentale, come zona illusoria nella quale si incontrano l’utopia del passato e i sogni irrealizzati del presente. Trois souvenirs de ma jeunesse potrebbe essere definito come un film sulla prima volta, sull’inattingibilità di un sentire che, una volta esperito, è consumato e perso per sempre; e, per questo, un’eccezionale storia universale sul passaggio all’età adulta.

Lo sbocciare dell’amore per Esther entra in forte risonanza con il crepuscolo della relazione raccontato in Comment je me suis disputé… (ma vie sexuelle). Attraverso quello che si rivela il prequel di una storia destinata a sbriciolarsi nell’insofferenza reciproca, emerge l’ellissi temporale che separa i due film. Comment je me suis disputé… (ma vie sexuelle) raccontava di un ventinovenne che doveva dare un senso alla propria esistenza. Il raggiungimento di questo obiettivo implicava una missione: lasciare libera Esther dalla loro relazione. Vent’anni dopo, il corpo e la mente di Paul sono mutati, così come il suo modo di resistere al cinismo. Il tempo rimosso dalla narrazione e sottratto ai nostri occhi è quello dell’assenza di Esther. Un tempo che segna esteriormente, ma che scivola via senza lasciare traccia. E che, nell’ultimo grande gesto eroico di Paul, deve lasciare il posto alla rievocazione del passato, per rivendicare la purezza dell’amore per Esther, e con essa quella della giovinezza.