Andrzej Wajda è certamente il regista polacco che ha più di ogni altro lavorato sulla Storia facendo del proprio cinema una rara e significativa testimonianza dei cambiamenti avvenuti nella società del suo Paese: dagli esordi legati al tema bellico e resistenziale (Generazione [Pokolenie, 1954], I dannati di Varsavia [Kanał, 1957], Cenere e diamanti [Popiół i diament, 1958]) passando per le riflessioni sull’uomo polacco all’epoca dello stalinismo e di Solidarność (L’uomo di marmo [Człowiek z marmuru, 1976], L’uomo di ferro [Człowiek z żelaza, 1981]), sino a giungere ai più recenti ritorni sulla guerra e i suoi orrori (Katyń, 2007).

Al pubblico occidentale – e italiano soprattutto – è forse meno nota la produzione di Wajda legata ad altri periodi storici, in particolare quello a cavallo tra Ottocento e Novecento.  Reduce da Le nozze (Wesele, 1972), ambientato nella Polonia rurale dell’anno 1900 (e dal televisivo Pilato e gli altri [Pilatus und andere, 1971]), Wajda si cimenta con l’adattamento del romanzo La terra promessa (1898) del Premio Nobel per la Letteratura Wladislaw Stanislaw Reymont. Autore vicino alle correnti del naturalismo e del realismo, Reymont (il cui vero cognome è Rejment) trascorre un lungo periodo a Łódź per raccogliere le informazioni che saranno alla base del romanzo, ambientato durante la rivoluzione industriale. Definito da molti esegeti della sua opera come un crudo ritratto della società in rapida trasformazione e come un rarissimo caso di opera narrativa polacca di fine secolo di ambientazione e temi strettamente urbani, il romanzo non è privo di numerosi spunti di carattere morale (la questione dello spopolamento delle campagne e la conseguente urbanizzazione forzata, l’ambiguità dei rapporti personali, il perseguimento del guadagno come unico scopo di vita, la legge del più forte) che, per stessa ammissione di Wajda, non potevano non attrarre il regista: la borghesia rampante ritratta nel romanzo è certamente esecrabile, tuttavia, è in grado di esercitare un grande fascino verso il lettore e, dunque, verso il potenziale spettatore (1). Scritturato ancora una volta Daniel Olbrychski (ormai da un decennio protagonista delle pellicole del regista), il cineasta si getta a capofitto in una nuova onerosa impresa che lo impegnerà per undici settimane di tournage più due mesi di montaggio: il frutto di tale lavoro è un film di circa tre ore che lo stesso Wajda non nasconde essere il suo progetto più ambizioso sino ad allora realizzato.

I protagonisti della vicenda narrata sono tre: il giovane aristocratico polacco Karol, il tedesco Maks e l’ebreo Welt (2). Ritrovatisi in quel crogiuolo culturale che è la Łódź dell’epoca, tutti e tre sono animati dalla volontà ferma di liberarsi dei miti del passato, quei miti tipici dell’immaginario polacco, la terra, la Patria, la famiglia, considerati come ostacoli al progresso. Cinici e approfittatori, agiscono senza scrupolo alcuno per ottenere successo e denaro, fama e potere. “La terra promessa” del titolo è quella garantita dal capitalismo spregiudicato e opportunista di cui si fanno portatori. Significativa in tal senso è la sequenza che Wajda ambienta in Borsa, luogo simbolo di un potere i cui rappresentanti (gli agenti di scambio) a tratti assumono le movenze di manichini senza apparente comando, in costante movimento verso la distruzione. Distruzione ben simboleggiata nella scena dell’incendio che rade al suolo la fabbrica che i protagonisti non hanno ancora assicurato.

Olbrychski dà il volto e la voce a Karol, personaggio chiave della vicenda, per molti versi il più rappresentativo in quanto incarna sino in fondo il profilo del freddo calcolatore, del cinico esecutore di una legge amorale, quella dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo (Wajda dipinge con rara efficacia una città industriale in cui le fabbriche sono dei Moloch famelici e voraci pronti a divorare ogni sottoposto). Non a caso sarà proprio lui, nell’epilogo della vicenda ambientato ad anni di distanza dal prologo, a dare ordine ai suoi aguzzini di sparare sulla folla di operai che protesta sotto la direzione della sua nuova, moderna fabbrica. Ed è in quella folla che spicca, a un tratto, una bandiera rossa, segno di un possibile riscatto, di un futuro diverso per quella massa di persone che in questo film, così incentrato sui “padroni”, non ha volto alcuno.

 

NOTE

(1) Molti anni prima del lavoro di Wajda, il cinema polacco dedicò un adattamento al romanzo, nel 1927 ad opera di A. Wegierski e A. Hertz. Nel 1978 la tv ne produrrà una miniserie. Alcune riflessioni del regista sul film e sulla sua lavorazione sono contenute in Andrzej Wajda, Un cinéma nommé désir, Stock, Paris, 1986, in particolare alle pp. 58-59.

(2) In estrema sintesi, la sinossi del film è la seguente:  “È la rivoluzione capitalista, siamo nella “Manchester dell’Europa orientale”. In mezzo a questa nuova fauna di avventurieri e speculatori, i tre amici che decidono di costruire insieme un’attività e di approfittare del momento per partecipare anche loro, trovare anch’essi il loro posto, in questa corsa alla ricchezza. Il giovane, aristocratico di campagna, polacco, Karol Borowiecki, il tedesco Maks Baum, l’ebreo Mortyk Welt. Karol convince il padre a vendere la proprietà di famiglia, Maks, figlio di un vecchio industriale all’antica la cui azienda – proprio perché gestita onestamente – è sull’orlo del fallimento, riesce anche lui a procurarsi del denaro. Moryk, esperto frequentatore di usurai e trafficanti di danaro, fa anch’egli la sua parte. Il problema di reperire i fondi necessari pare risolto, anche a costo di calpestare principi, valori e sentimenti. Lo dimostra meglio di tutti Karol il quale, pur fidanzato con la giovane e ingenua Anka, si sceglie come amante la Zucker, moglie di un ricco industriale ebreo, e per suo tramite – una via di mezzo tra spionaggio industriale e confidenza d’alcova – viene a sapere in anticipo su tutti gli altri di decisive e ancora segrete novità che serviranno a lui e agli altri amici per lanciare la propria attività a danno della concorrenza: si tratta del previsto aumento dei diritti doganali sull’importazione del cotone. Finalmente avranno la loro fabbrica: l’euforia dell’inaugurazione. Ma ecco l’imprevisto, il dettaglio sfuggito al cinico calcolo; la Zucker è incinta del figlio che suo marito ha sempre desiderato. Ma è naturalmente di Karol. I due sono stati spiati e scoperti da Zucker il quale, accecato dal desiderio di vendetta, fa dare alle fiamme la nuova fabbrica, che Karol e gli altri non hanno ancora potuto assicurare. Dalle stelle alla polvere in un batter d’occhi, i tre amici si trovano al punto di partenza, ma questa volta, è Karol a dirlo, non ricominceranno insieme: ognuno per conto suo.” (Paolo D’Agostini, Andrzej Wajda, Il Castoro, Milano, 1992, pp. 80-81).