–  Sto cercando una cosa.

–  Hai perduto qualcosa?

–  Sì.

–  L’hai perduta qui?

–  No.

–  Allora perché la cerchi qui?

–  Perché qui c’è luce!

 

“Rabin fu l’unica persona ad abbozzare un’alternativa politica alla realtà in cui ci troviamo oggi in Israele” afferma Amos Gitai. E in cui si trovava ieri, aggiungiamo noi. Il secondo mandato di Rabin, dal ‘92 fino alla sua morte nel ‘95 (nel mezzo gli accordi di Oslo del ’93), fu l’unica finestra storica nella quale il processo di pace è stato messo in piedi a quattro mani, quelle di Israele e dell’OLP. Il segno inequivocabile di continuità politica, piegata ma non spezzata, è Benjamin Netanyahu. I filmati di repertorio dei comizi del Likud, con Netanyahu agitatore di una folla che chiede a gran voce la testa di Rabin, fanno il paio con le immagini finali dei cartelli elettorali dell’attuale Primo ministro in una Tel Aviv deserta, in quella che fino a non troppo tempo fa era considerata la roccaforte del laicismo e delle spinte riformiste dal basso.

Per il popolo israeliano Yitzhak Rabin non è solo il simbolo dell’apertura alla pace, è anche il primo Primo ministro a essere nato in Israele. I ripetuti tentativi di sgomberare alcune delle colonie da parte del primo capo dell’esecutivo a non aver vissuto l’esilio, combinati ai trattati di pace con i palestinesi, fecero da propulsore all’odio e all’isteria – religiosa e politica – di larghe frange di coloni, che nel frattempo vedevano aumentare la loro influenza all’interno dei partiti di destra ed estrema destra. Rabin è l’unico politico israeliano (il solo insieme a Trotsky) a essere stato vittima del rito talmudico din rodef, maledizione che condanna a morte il destinatario e ne giustifica l’omicidio. Gitai non scherza con la religione, l’ha già dimostrato in Kadosh, e non si limita a utilizzarla come mero espediente narrativo. Il blocco spazio-tempo della cerimonia va rispettato e Gitai con un lungo piano sequenza fissa il rituale alla sua durata.

Il 4 novembre 1995 Rabin venne assassinato. È dalle immagini di repertorio di quella sera che parte il processo di Gitai e della Commissione Shamgar. Se ne Il processo di Kafka il tribunale opera sempre nella stanza a fianco rispetto a quella in cui si trova Josef K., Gitai sfonda la porta e lascia che lo spettatore si sieda accanto alla commissione d’inchiesta (tutti i dialoghi sono estratti dalla documentazione esistente delle udienze). Ma niente può cambiare: siamo nella stanza del processo ma, a questo punto, è la verità a essere in quella a fianco. Ecco quindi, il punto di convergenza tra le due opere: “ l’unico compito del tribunale è quello di inscenare processi” (Pietro Citati).

L’ovvio, che letteralmente significa “che viene incontro”, è nei filmati dell’omicidio che la commissione contempla prima di iniziare gli interrogatori ed è la palude nella quale la commissione s’impantanerà. L’ovvio nasconde, sotto le mentite spoglie della chiarezza, la proliferazione delle stanze adiacenti e la segmentazione a compartimenti stagni della verità. La commissione si affanna a rovistare nei bassi uffici del potere (scorta, polizia, personale ospedaliero) in cerca di qualcosa che sveli un disegno complesso e complessivo. Quando la lettura di un documento cruciale per lo svolgersi dell’indagine (che riguarda presumibilmente le più alte sfere del potere) viene troncata da una dissolvenza in nero ci si arrende al nuovo, repentino, spostamento della verità. Ygal Amir, l’assassino, non può essere altro che in una stanza a fianco, impassibile alle aggressioni verbali del poliziotto, forte dell’ovvio in cui si situa. Nell’indagine non ha alcun ruolo e non è di alcuna utilità. Tanto è forte la posizione di Amir che viene relegato a margini anche della narrazione. È Gitai stesso, in un cameo in cui interpreta un poliziotto, a confinarlo in una cella che non vediamo. Da lì in avanti apparirà sporadicamente e solo per mostrare che nulla è cambiato.

Laddove la Commissione Shamgar fallisce, Gitai riesce. Per recuperare l’alterità cancellata dall’ovvio, il regista israeliano accompagna i consueti piano sequenza con un abbondante utilizzo del campo/controcampo, posizionandosi sempre al confine tra i due territori. Non è una novità per chi ha costruito una filmografia di frontiera (Bait, Golem-L’esprit de l’exil, Free Zone, solo per citarne alcuni), tutta protesa allo studio degli spazi e alla prismaticità delle immagini. Stavolta però l’architettura narrativa ricostruisce uno spazio (terzo) attraverso un lavoro di rara complessità. Gitai si serve del campo/controcampo per alterare rapporti non riconciliati, costringendo al faccia a faccia le immagini televisive e quelle cinematografiche, legge e  religione, democrazia e fanatismo, i cittadini israeliani e i coloni, insinuandosi nell’interstizio della dicotomia per spezzarla e riaprire un dialogo dato per morto. Gitai sceglie Rabin come soggetto del suo film perché, come il Primo ministro, rifiuta il campo dell’ovvio e della continuità che sembra aver avvelenato Israele e la sua voglia di status quo.

(Si ringraziano Marco Grosoli, Marco Longo e Pasquale Cicchetti per alcune suggestioni rielaborate nel testo.)