Guardo i volti che popolano l’ultima edizione del Festival. Sorridono, come è normale che sia. I festival sono luoghi di gioia, di festa. Oggi, quelli quegli stessi sorrisi hanno espressioni diverse, mi paiono smorfie. E mi fanno paura. Oggi, non posso fare a meno di sovrapporvi il sorriso pallido ma sincero di Chantal, che dopo la proiezione del suo ultimo film, No Home Movie, mi aveva chiesto «È andata bene, vero ?» e io le avevo risposto di sì. Ed era davvero andata bene. La grande sala del FEVI aveva accolto il film molto positivamente, un film talmente preciso e ostinato nel toccare certe corde che per alcuni può essere difficile entrarci.

Oggi che lei non è più con noi, ripenso a quel momento di gioia e di condivisione, quando ha aggiunto: “Sono felice di essere qui”. Avrei dovuto superare la mia timidezza e abbracciarla. Peccato!
Resta il suo film.

Mi rimane l’immagine di quell’alberello che, solo nel deserto, resiste alle raffiche del vento: un’immagine che oggi mi travolge di tenerezza. Mi rimane la voce di Chantal, la sua voce roca e tuttavia così dolce, soprattutto quando parla con la madre attraverso lo schermo del computer. Mi rimane il suo pensiero che arriva come un fulmine (“Voglio parlare di come oggi non esista più a distanza”). Mi rimane la sua opera che parla, meglio di qualunque altra cosa, del mondo e delle immagini alla fine dell’era del cinema. No Home Movie, come tutti i film precedenti, è molto più di un film: è un’opera che spalanca le porte e immagina nuovi modi di mettere in scena l’eterna questione di cosa sia una presenza davanti alla macchina da presa. Di come dare un senso a questa presenza, che è soltanto un altro modo per dare senso all’esistenza.

Ripercorro gli appunti che ho preso sui suoi film. Il primo riguarda la sconvolgente scoperta di Jeanne Dielman (1975), un film che ha pochissimo da offrire (in termini di potenza delle immagini e anche della storia) ma ha un dono singolare: cresce molto velocemente dopo la visione. E ciò avviene per la maggior parte dei suoi film: una volta terminati, cominciano a lavorare dentro di noi.

Ritrovo una sua frase. “Il mio modo di filmare si avvicina più al sacro che all’idolatria. Dovrei spiegarmi meglio in merito, ma credo che non ci riuscirò mai”.

Ciò che mi colpisce di Chantal è proprio questa idea di mistero, che è il mistero dell’essere e precede ogni azione. Ciò non è dovuto solo alla durata delle sue inquadrature che eccedono la misura della narrazione tradizionale. Le sue inquadrature interpellano, chiedono allo spettatore di non essere più un voyeur: chiedono partecipazione. Essere con le immagini. In Akerman l’immagine ha qualcosa di sacro perché è ancorata all’esistenza, perché travalica ciò che vediamo per raggiungere una zona a noi preziosa, proprio perché invisibile. Oggi, invece, la maggior parte delle immagini assomiglia ai vitelli d’oro della Bibbia. Idoli scintillanti ma vuoti.

Ecco perché Chantal ci manca già tantissimo.

(testo pubblicato per gentile concessione dell’autore, riprodotto da https://carlochatrian.wordpress.com/)