Qualcosa tra l’euforia e la malinconia. Così Paul definisce il suono puro del French touch che ha animato i club parigini dai primi anni Novanta. E così si potrebbe definire anche Eden, ultima opera di Mia Hansen-Løve, tenacemente sospesa tra i due estremi.

Il protagonista entra in scena nel 1992, quando rave e session clandestine costituiscono il principale terreno di sperimentazione di suoni e beat che, una volta attraversata la cortina delle radio commerciali, sono destinati a contaminarsi con i gusti del mercato e le esigenze del marketing. Ma Paul, suo malgrado, quella cortina non arriva mai a oltrepassarla. Poco interessato ai sottogeneri e agli sviluppi più attraenti e aggressivi della garage house, preferisce mantenere le tonalità leggere che lo hanno catturato agli inizi. Perché la sua storia d’amore con la musica è nata – come nelle migliori cronache sentimentali, e come nel film precedente di Hansen-Løve, Un amore di gioventù (2011) – da un incontro fiabesco, da un incantesimo che nessuna logica razionale è in grado di sciogliere.

La regista apre significativamente il suo film con la luce flebile del crepuscolo, rivelando già con questa scelta le tinte cromatiche della storia di Paul e di chi con lui sta camminando nel buio per raggiungere una meta misteriosa, un’imbarcazione attraccata da cui provengono le sirene di una festa segreta. Paul sosta nel bosco, lasciando per un momento le altre presenze elfiche che lo accompagnano, e si appoggia a un albero, volgendo lo sguardo verso il cielo che lo sovrasta. È a quel punto che un magnifico uccello colorato, fatto della materia impalpabile del cinema d’animazione, prende il volo sopra la sua testa e scompare tra le fronde. Non si tratta di un vezzo autoriale, né della semplice figurazione di uno stato allucinatorio, a cui fanno spesso ricorso registi con molte ambizioni ma non altrettante idee (come Max Joseph in We Are Your Friends, altra storia di dj uscita in Italia nello stesso periodo di Eden). È invece una breve apparizione che rimane del tutto inspiegata, e che per questo riesce a catturare la fugacità di un momento epifanico, quando una voce interiore improvvisamente illumina la strada da percorrere. La storia di Paul si carica sin da questo momento del sapore atavico della fiaba, trasfigurando il dj in cerca di successo in un eroe che vuole ritrovare la creatura incantata che gli è apparsa in sogno.

Con il consueto naturalismo, che le permette di arrivare all’autenticità dei corpi e delle cose senza rimanere imprigionata in una ricostruzione realistica, Hansen-Løve racconta vent’anni di scena musicale da un punto di vista profondamente sincero ed emozionale. Merito anche della radice autobiografica del film, direttamente ispirato alla vita del fratello Sven (autore della sceneggiatura insieme alla regista) e alla propria memoria di adolescente che ha vissuto in prima persona la stagione dei club e della French house, unendosi alle danze e riprendendo a squarciagola testi tanto superati quanto affascinanti. Il repertorio selezionato nella pellicola non è tuttavia il compendio didattico di una corrente musicale, piuttosto una rete sonora che in ogni istante del film trattiene le esperienze dei singoli e le riconduce alla collettività di una subcultura che abita la notte e rifugge l’universo dei normali. Una subcultura prevalentemente stigmatizzata dalla generazione precedente – qui rappresentata dalla madre di Paul – e ridotta nel discorso pubblico a pigrizia intellettuale, disimpegno politico e dipendenza da stupefacenti. Al contrario, Eden non fornisce interpretazioni del fenomeno, né prova a idealizzarne i protagonisti e, con loro, il decennio dei Novanta. Fuori da ogni mitologia – verso cui il sentimento nostalgico che si avverte potrebbe facilmente condurre – rimane il sentore dell’esperienza, di un tempo che viene vissuto soltanto come presente: cosa si prova ad ascoltare musica insieme a decine di altre persone, come ci si sente a far ballare una folla davanti a sé, cosa vuol dire entrare in mezzo a questa umanità, cosa significa attraversare una sala da ballo vuota. La macchina da presa prova a catturare questo spettro di emozioni – dalla pienezza al vuoto, dall’euforia alla malinconia – con movimenti panoramici che lavorano sullo spazio del club, facendolo percepire come terreno in continuo movimento, campo esperienziale dove l’identità individuale viene messa costantemente alla prova con la solitudine o con il “noi” della folla. Ma nessuno rischia davvero di perdere se stesso, sulla pista, tanto che la massa filmata dalla regista non appare mai come un dispositivo omologante (cosa assai nuova rispetto ai precedenti tentativi di raccontare questi ambienti con la fiction), quanto come una collettività eterogenea, che trova in 120 bpm un ritmo e un respiro comune.

Paul si sente parte di tutto questo, ma non si rende conto che, oltre al presente, esiste una dimensione futura, verso cui non è in grado di proiettarsi, se non sotto forma di sogno e desiderio di affermazione. I Daft Punk, – che in una scena, ancora sconosciuti, fanno partire Da funk, mandando in delirio i fortunati presenti a una festa domestica – rimangono lo spettro di un successo globale possibile ma ineguagliabile. Così, mentre Paul, ragazzo dalla faccia pulita, rimane irrimediabilmente inalterato, tutto intorno a lui si trasforma in maniera quasi impercettibile, a partire dai dettagli, come i capelli di Louise, o come l’inesorabile ricambio generazionale del pubblico del club. In questo senso, la figura che meglio rende l’incapacità di Paul di accettare il fatto che il tempo non possa essere fermato in uno stato di apatica innocenza è l’ellissi. Il racconto procede per scansioni di circa due anni tra un capitolo e l’altro, ma senza che a dettare le cesure siano riti di passaggio evidenti. Non ci sono matrimoni, lauree o nascite che frenino la relazione privilegiata di Paul con la musica. È solo il tonfo muto e inaspettato della morte a distorcere il flusso ininterrotto che ormai confonde il giorno con la notte, e l’interno con l’esterno. La rielaborazione del lutto impone di morire a propria volta, lasciando l’effigie di ciò che eravamo per adeguare i nostri sogni a ciò che siamo diventati nel frattempo, mentre eravamo presi dalla danza. Così, dopo aver attraversato la luce stroboscopica e il buio della foresta, Hansen-Løve lascia che a chiudere la parabola di Paul sia la parola, incisa sullo schermo: The Rhythm, poesia di Robert Creeley, celebra la ciclicità della vita, fatta di morte e di rinascita. Quella che forse attende tutte le anime che si sono perse, inseguendo piume colorate.