Inutile negarlo: Chant d’Hiver (Canto d’inverno) riattiva in ogni inquadratura un momento della filmografia passata del suo autore, Otar Iosseliani. Serge Daney diceva a proposito del cinema di Éric Rohmer che “la serie ci libera dal peso di giudicare ogni film come se fosse l’ultimo e ci lascia liberi di scegliere quello che più fa al caso nostro”. È possibile parlare di serie per Iosseliani? Senza dubbio. Sono addirittura tre le serie che attraversano Chant d’Hiver. Quella delle stagioni, aperta da Ap’rili (Aprile) e Giorgobistve (La caduta delle foglie) fino a Jardins en automne (Giardini in autunno) e questo Chant d’Hiver. La serie dei canti: Dzveli qartuli simgera (Antiche canzoni georgiane), Iqo shashvi mgalobeli (C’era una volta un merlo canterino), Chantrapas e ora Chant d’Hiver. I canti di Iosseliani, intesi come fenomeni, avvenimenti, rimangono attaccati all’immagine ma sempre in anticipo o in ritardo per esser visti. Infine quella sul potere: già con Brigands, chapitre VII Iosseliani notificava di aver affrontato il discorso del potere per la settima volta, discorso mai interrotto e arrivato (dopo altri quattro film-capitoli) con Chant d’Hiver al chapitre XII. Un potere sempre presente e mai protagonista, confinato in un angolo dalla leggera indifferenza che il regista georgiano ha riservato tanto al comunismo sovietico quanto al capitalismo europeo.

Iosseliani percorre in punta di piedi il filo della ripetizione evitando, però, di cadere sul tappeto elastico della riconciliazione. Paradossalmente il metodo usato per smarcarsi dalla ripetizione autocelebrativa è quello di sempre: più diventano necessari snodi narrativi e caratterizzazioni dei personaggi, più la macchina da presa si “distrae” e si allontana; al contatto preferisce ogni volta il distacco. Se ripetizione c’è, riguarda le piccole vicende quotidiane, gli spostamenti da casa a lavoro, le chiacchiere seduti su una panchina e perché no, i furtarelli al mercato. Il fossato costruito da Iosseliani rende i personaggi e la loro psicologia opachi, irriducibili e quindi unici. Un incendio visto da lontano! La presa di distanza con cui il regista georgiano aveva scansato l’ideologia (Le favoris de la lune), l’etnologia (Et la lumière fut) e l’autobiografia (Chantrapas), gli permette ora di dimenticare (senza rifiutare) la propria filmografia.

Chant d’Hiver. Il film si apre con la decapitazione di un visconte, durante il Regime del terrore di Robespierre. Lo ritroviamo clochard nella Parigi contemporanea, letteralmente piallato in stile Looney Tunes da uno schiacciasassi. Clochard e aristocratici sono i due segmenti sociali che rifiutano la scala(ta) sociale e per questo sono detestati da quello di mezzo, i Briganti borghesi. Il boia giacobino oggi è un capo della polizia indolente, sempre che non si tratti di scacciare i senzatetto da ogni lembo di suolo occupato; l’intolleranza borghese si rivolge tanto al segmento superiore quanto a quello inferiore, senza preferenze. A ristabilire una sorta di equità ci pensa il regista, costringendo tutti i propri personaggi a sgomberare senza tregua l’inquadratura, poco importa che essi siano clochard, mathieu amalric, poliziotti, pierre etaix o enrico ghezzi (il quale, in un suo articolo, parla a ragione di “equipollenza” dei personaggi). La macchina da presa li accarezza, non li afferra e anzi li costringe dolcemente a filar via. Il canto d’inverno non ha tempo di soffermarsi su questa o quella nota (totale assenza di primi e primissimi piani), il ritmo corale ne risentirebbe.

In questo quadro sconfortante si aprono comunque crepe di fiducia. Una in particolare: l’aristocratico decapitato, poi clochard spianato, rivive nuovamente, stavolta come portinaio che traffica armi in cambio di libri. Questo esempio un po’ paradossale mostra tutto il disprezzo di Iosseliani per un romanticismo che guarda indietro piangendosi addosso; il regista georgiano non è affatto preoccupato per la morte della cultura aristocratica o dei clochard, nonostante siano quelle a lui più care. La loro sparizione permette l’apparizione di una nuova classe portinaia, un po’ elegante un po’ vagabonda, un po’ brigante un po’ intellettuale, che non ha finora mai avuto voce. Le sentenze su chi sia il migliore o il peggiore non hanno mai interessato Iosseliani, al contrario della mutabilità vitale. Per lo spettatore che vede in Chant d’Hiver un mero riepilogo dei suoi film precedenti, non sembra esserci risposta migliore.