Ancor prima che scriva insieme ad Alain Resnais la sceneggiatura de L’anno scorso a Marienbad (1961), sono in molti ad attendere che Alain Robbe-Grillet, considerato il caposcuola del cosiddetto Nouveau Roman, si dedichi al cinema. Infatti, in virtù dei suoi libri degli anni Cinquanta, lo scrittore “[…] appariva agli occhi di molti critici come un autore di romanzi cinematografici” (1) dal quale ci si aspettava realizzasse al cinema quanto compiuto per la letteratura, ovvero una vera e propria rivoluzione formale e strutturale.

Artefice di una letteratura dal “senso aperto” (per riprendere la felice e fortunata formula proposta da Umberto Eco), anche al cinema Robbe-Grillet sarà in grado di chiamare in causa un nuovo tipo di fruitore. Uno spettatore che, frustrate le sue aspettative abituali di fronte al racconto e alla rappresentazione lineare, si introduce “[…] fattivamente al centro della finzione” (2), mettendo in moto la sua attività interpretatrice, la sua libertà di parte attiva nella creazione.

Stando alle stesse parole di Robbe-Grillet, si tratta di sfruttare quelle caratteristiche del cinema che hanno “[…] un potere di aggressione molto superiore a quello della frase scritta” (3), potere che garantirebbe di compiere con maggiore forza un progetto di “terrorismo intellettuale”, proponendo allo spettatore un costante gioco intellettuale e interpretativo.

Già un anno prima di stendere la sceneggiatura di L'anno scorso a Marienbad, Robbe-Grillet esordisce alla regia con L’immortale (1963) che, a causa di grossi problemi di produzione, sarà distribuito solo dopo l’uscita nelle sale della pellicola di Resnais. L’immortale propone, con varianti e messe a punto originali, alcuni dei temi fondamentali di Marienbad. Vi si trovano “[…] un amore perseguito e invocato dal personaggio narrante, la presenza incombente di un altro uomo capace di vincolare la figura femminile (marito o amante; il triangolo borghese), un décor estraneo alla comune esperienza, e quindi tendenzialmente mitico, come sfondo e de-localizzazione della “vicenda” (4). Jacques Doniol-Valcroze, noto critico dei Cahiers du cinéma, ne è il protagonista. Presentandoci la pellicola in un breve scritto apparso sulla sua rivista, egli mette in luce il rifiuto da parte di Robbe-Grillet di accordare agli eventi un senso fornito “in anticipo”, lasciando invece allo spettatore piena libertà interpretativa: “Il soggetto, o piuttosto il “motivo” de L’immortale è estremamente semplice. Un professore francese arriva ad Istanbul per iniziare a lavorare. Incontra una giovane donna misteriosa che gli fa visitare la città. Iniziano una relazione senza che lui sappia mai l’identità esatta della donna. Lei scompare […] Questo è un modo di raccontare L’immortale. E non è il solo e non è di certo il migliore, ma solo il più semplice” (5).

Non permettendo allo spettatore di definire in modo chiaro i confini tra vero e falso, rifiutando la creazione di percorsi privilegiati, questi può solo avanzare delle ipotesi, lasciando sempre aperta sul possibile la porta dell’interpretazione e del senso. Una concezione del ruolo dello spettatore, questa, che caratterizzerà tutta l’opera di Robbe-Grillet, e che giungerà con Slittamenti progressivi del piacere al suo discorso più compiuto.

Una volta tornato sul set per il successivo Trans-Europ-Express (1966), Robbe-Grillet non ha con sé nessun découpage rigoroso, solo una sceneggiatura presentata ai produttori del film al fine di ottenere i finanziamenti necessari e che verrà completamente modificata nel corso del tournage. “Il cinema è un’arte che deve ammettere di lavorare nel provvisorio” (6), afferma perentoriamente lo scrittore-regista. E, in effetti, il film è caratterizzato proprio dal concetto di in progress, di divenire costante. Trans-Europ-Express “ha per soggetto lo sforzo di uno scrittore in treno (en train) intento a (en train) scrivere la sceneggiatura dello stesso film che si va facendo (en train de se faire) davanti a noi: Trans-Europ-Express. Esso procede man mano che il trio Jean-Marc-Lucette immagina e disfa il film da farsi, lo commenta, lo raddoppia, lo discute, lo rifonde, lo smonta sotto i nostri occhi. Ab­biamo sì la storia di un trafficante di droga, ma i veri protagonisti del film sono lo scrittore e i suoi collaboratori” (7). In questa pellicola compare per la prima volta l’attore che sarà a lungo il preferito di Robbe-Grillet, Jean-Louis Trintignant; inoltre, vi recitano anche il regista stesso, nella parte dello scrittore nell’atto di scrivere un film, e sua moglie Catherine nei panni della sua segretaria (completa il trio un altro collaboratore). La scelta di recitare “[…] il ruolo di un archetipo contemporaneo: quello del creatore alle prese con la sua creazione en train de se faire […]” (8), altro non fa che catalizzare l’attenzione dello spettatore sul film stesso inteso come testo, smascherandone i procedimenti, la forma. Ci troviamo dunque davanti a un grande gioco metalinguistico che Robbe-Grillet crea per mostrare la nudità del procedimento cinema.

Se all’inizio il film sembra rifarsi ai generi letterari convenzionali (il poliziesco, il noir, la spy-story) è solo per rovesciarne le regole e le convenzioni: lo spettatore si trova ben presto di fronte a una scrittura polivalente, ambigua, fatta di false piste, di contraddizioni, incongruenze, controsensi macroscopici, riprese, ripetizioni, tutto il contrario, insomma, di quel che avviene in una narrazione “forte” e strutturata come quella di un racconto di genere. Il tutto questo al fine di instaurare con lo spettatore un rapporto di partecipazione attiva. Sostiene Robbe-Grillet: “per me, l’aspetto più importante del film è il suo lato ludico. Trans-Europ-Express è un gioco perpetuo; gioco di forme gioco del narratore con i suoi personaggi, gioco degli attori, gioco dei personaggi tra di loro […]” (9).

Il film che, probabilmente, più di ogni altro racchiude uno dei temi più cari al regista, ovvero quello del rapporto tra verità e finzione, è L’uomo che mente (1968). In questa pellicola, girata in Boemia con capitali cecoslovacchi e francesi, il protagonista si chiama, alternativamente, a seconda dei momenti e delle circostanze, Jean Robin o Boris Varissa, l’uomo che mente del titolo. Così egli si presenta al pubblico: “Mi chiamo Robin… Jean Robin… Vi racconterò la mia storia… o almeno cercherò di farlo”. Procede quindi nel raccontare la propria storia, per repentinamente interrompersi e affermare: “Dov'ero arrivato? Ah, sì! Mi chiamo Boris… Ma di solito gli altri mi chiamano Jean… e qualche volta anche l'Ucraino, non ho mai saputo perché… Ricomicio da capo. Ora vi racconterò la mia vera storia, o almeno ci proverò”. A distanza di più di vent’anni, Boris Varissa ritorna nei luoghi in cui combatté come resistente insieme al compagno Jean Robin, scomparso alla fine della guerra e ancora atteso nel castello di famiglia dal padre, dalla moglie Laura, dalla sorella Silvia e dalla domestica Maria. Trovato alloggio nel villaggio di Robin, Varissa inizia a fornire differenti versioni del proprio passato e di quello dell’amico d’armi: versioni tanto differenti e la cui validità è costantemente negata, che diventa impossibile distinguere la verità dalla finzione. Boris finirà per affermare che Robin è morto (o che forse è lui stesso Jean…) e imporrà la propria presenza al castello, dove seduce le tre donne che vi risiedono. È evidente come, anche in questo film, risulti arduo stabilire delle certezze. La soppressione della distanza tra verità e menzogna si realizza non solo attraverso il proliferare delle narrazioni parallele, ma anche mediante ripetizioni, biforcazioni, movimenti ciclici (la pellicola inizia e finisce nello stesso modo). Più in generale, assistiamo a una divaricazione tra parola e immagine, unione che tradizionalmente è garante della verosimiglianza della rappresentazione. Ma a Robbe-Grillet non basta. Anche il sonoro differisce dalle immagini di cui è apparentemente appendice. In questo film non solo niente è reale, ma niente è neppure immaginario: tutto è finzione. Quindi, ancora una volta, solo lo spettatore con la sua interpretazione attiva sarà in grado di fornire una chiave di lettura. Una tra le tante possibili.

Durante un viaggio in Tunisia, Robbe-Grillet avverte per la prima volta il desiderio di girare a colori. Il risultato è quello che è stato definito come “il film più complesso di Robbe-Grillet” (10). “Oltre l’Eden (1971) non è un film realista: non dà a vedere lo spettacolo del mondo, ma solo il movimento della sua scrittura. Non mostrando in definitiva che se stesso, è una auto-rappresentazione […]”, afferma il regista in un colloquio con André Gardies (11). L’Eden del titolo è un bar, luogo di ritrovo di un gruppo di studenti universitari annoiati e particolarmente affascinati da giochi erotici e violenti. Tra questi giovani c’è Violette, sedotta dalle parole e dai modi di un nuovo arrivato, lo straniero Duchemin, che parla dell’Africa e dei suoi misteri. La ragazza si reca a un appuntamento con l’uomo, per trovarlo senza vita. Il gruppo di amici dell’Eden, tra cui la stessa Violette, assistono a un film, ambientato in Tunisia: tutto d’un tratto, la ragazza è proiettata all’interno della pellicola, laddove troverà Duchemin, che ora fa lo scultore, plasmando veri corpi femminili al posto della creta. Dopo una serie di vicende erotiche e surreali, Violette tornerà ancora all’Eden, pronta, forse, a iniziare nuovamente la sua strana avventura.

Realizzato nel corso dell’estate del 1969 a Bratislava, il film è in effetti la più complessa messa in scena del cinema dell’autore. Quasi tutti gli interni sono ricostruiti in studio, in particolare grandi sforzi richiese la scenografia del bar (il labirintico sistema di pannelli ispirati a Mondrian che scivolano su rotaie parallele che s'in­crociano, quadrettando tutto il teatro di posa, la di­sposizione delle quali viene modificata fra un'inqua­dratura e l'altra e a volte anche nel corso di una ri­presa, in modo da rendere lo spazio di recitazione ancora meno rigido comportò settimane di lavorazione). Il tutto al servizio di un “mondo differente”, un “mondo parallelo” che è il luogo deputato alla finzione, vera protagonista della pellicola. Sin da subito, la macchina da presa ci mostra l’attrice Catherine Jourdan “al trucco“, mentre si applica del visibile sangue posticcio sul corpo. Robbe-Grillet palesa la finzione: farà lo stesso più volte nel corso della pellicola, come quando ci presenterà i vari “giochi” degli studenti del bar Eden come la roulette russa con spari a salve. E questo vale per tutte le situazioni cruente che il regista proporrà nel corso della pellicola, come lo stupro collettivo ai danni di Marie-Ève e il finto avvelenamento di Boris con il conseguente falso corteo funebre per le sue esequie. Tutto è messa in scena, rappresentazione, gioco, per l’appunto (ricordiamo come nel film compaiono altri dispositivi ludici, come la dama, la paglia più corta e la caccia al tesoro). La dimensione ludica investe anche il cinema, ma non nella semplice accezione metacinematografica tipica a molto cinema moderno: infatti, L’Eden non solo è il bar, è anche un piccolo cinema nel quale alcuni personaggi si recano per vedere un film caratterizzato da un immaginario esotico e coloniale (si veda in tal senso l’assonanza con la personale biografia di Robbe-Grillet). Immaginario che sembra in gran parte preso dal cinema del passato: sceicchi, vento e sabbia, cavalli, rapimenti, inseguimenti sulle dune. Nel corso di questa proiezione assistiamo ad una vera e propria identificazione del film con se stesso: Violette “d'un tratto, e senza soluzione di continuità, compare all'interno del film di cui era spettatrice, lasciando ex abrupto l'abituale contesto della sua vita di studentessa per il paesaggio africano. Robbe-Grillet afferma cosi, una volta per tutte e senza possibilità di dubbio, che non siamo nella realtà, bensì al cinema. […]” (12). Infatti, la Tunisia che vediamo con i nostri occhi non è la Tunisia della “realtà” e neppure un luogo che le assomiglia: si tratta di una realtà che esiste solo in quel preciso istante su quello schermo cinematografico. Dunque è pura finzione. Il film, dopo l’avventura africana di Violette, ritorna su di sé, ciclicamente, concludendosi così come è iniziato, e come chiaramente indicano le parole della giovane che chiudono la pellicola: “Sono di nuovo sola nella mia camera. Nulla è accaduto ancora. Tra poco uscirò, per ritrovare i compagni all'Eden. Avranno tutti l'aspetto stanco di chi ritorna da lontano”.

In realtà, Oltre l’Eden non si conclude con la sua (apparente) fine. Nel corso della lavorazione del film, Robbe-Grillet impressionò circa trentamila metri di pellicola, dei quali solo duemilasettecentocinquanta furono utilizzati nel montaggio definitivo. Con lo stesso materiale, nel 1971 il regista realizza per la televisione francese N. a pris les dés (1971), titolo che è, evidentemente, l’anagramma di L’Eden et après. A lungo invisibile, si tratta di un particolare esperimento formale la cui “trama” è così riassunta da Robbe-Grillet: “Una ragazza vive delle avventure straor­dinarie e si accorge bruscamente, alla fine, che sta solo partecipando a un gioco televisivo” (13). Il regista ha spiegato che il principio organizzatore del montaggio è tratto dalla musica d’avanguardia e dalla sua struttura, definita come aleatoria, musica dominata dall’indeterminatezza, dal caso in quanto i suoi esecutori stabilivano i fogli della partitura da eseguire scegliendoli in base ai numeri indicati da alcuni dadi lanciati da loro stessi.

Alice è una ragazza che, accusata di aver ucciso la coinquilina Nora, viene subito segregata in una prigione gestita da suore. Ma è stata davvero lei ad uccidere l’amica durante un perverso rapporto sessuale, o è forse un misterioso maniaco che si è introdotto in casa conoscendo l’ubicazione delle chiavi? E chi era Nora, una povera vittima inerme o una sadica e corrotta sfruttatrice? Trattandosi di un film di Robbe-Grillet, a ogni interrogatorio la verità sembra farsi sempre più lontana, mentre il gioco mentale dell’accusata coinvolge via via tutti gli inquirenti che si occupano del suo “strano” caso. Spostamenti progressivi del piacere (1974) inizia come il più banale dei polizieschi, con la presentazione sincronica dei tipici luoghi dell’opera di genere: mostrato il delitto, viene anche visualizzata un’auto della polizia che, a sirene spiegate, si dirige verso il luogo del delitto. L’ispettore irrompe nell’abitazione di Alice e Nora e qui interroga immediatamente Alice. È a questo punto che il lineare svolgersi della vicenda s’incrina: inizia, infatti, un interrogatorio del tutto privo di logica, fatto di domande senza senso poste senza che se ne attenda una qualche risposta. Solo più avanti sarà possibile dare un senso possibile alle domande poste dal poliziotto, ma quel che preme a Robbe-Grillet è giocare con i cliché del genere, riducendo l’interrogatorio a un puro pretesto per domande del tipo :“A che ora è rientrata a casa ieri sera?”. Il film è ancora un esercizio ludico, uno dei tanti dell’universo dell’autore, un gioco infinito, tanto che, significativamente, l’ultima battuta recita: “È tutto da ricominciare”.

Nella sua analisi della filmografia robbe-grillettiana, Dominique Noguez parla di una serie di pellicole consistenti in “giochi di strutture, di stereotipi erotico-polizieschi e di fantasmi”. Di essi,  Spostamenti progressivi del piacere “è probabilmente l’elemento più riuscito” (14). In fondo, il titolo del film potrebbe ben adattarsi all’intera opera cinematografica di Robbe-Grillet. Il concetto di “slittamento” rimanda infatti a quel procedi­mento messo in atto dal regista, consistente nell’evitare che i significati si depositino su un oggetto in particolare, facendo invece “slittare” continuamente le significazioni di elemento in elemento. Detto in altri termini, siamo di fronte a un senso che costantemente si sottrae invitando lo spettatore a ricercarlo, a inseguirlo, a riconsiderarlo come un approdo momentaneo e mai definitivo (15).

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NOTE

(1) Bruce Morrissette, Les romans de Robbe-Grillet, Paris, Les Éditions de Minuit, 1965, p. 181. La presente traduzione dal francese, come le successive, è mia.

(2) Umberto Eco, Opera aperta. Forma e indeterminazione nelle poetiche contemporanee, Milano, Bompiani, 2006 (7), p. 202).

(3) Alain Robbe-Grillet citato in Roberto Nepoti, Alain Robbe-Grillet, Firenze, La nuova Italia, 1978, p. 4.

(4) Ivi, p. 36.

(5) Jacques Doniol-Valcroze, Istanbul nous appartient, «Cahiers du cinéma», n. 143, maggio 1963.

(6) Alain Robbe-Grillet, Mes romans, mes films et mes ciné-romans, in «Magazine Littéraire», n. 6, aprile 1967, ora anche in Oliver Corpet, Emmanuelle Lambert, a cura di, Le voyageur: textes, causeries et entretiens, 1947-2001, Paris, Bourgois, 2001, p. 332.

(7) Franco Ferrini, Alain Robbe-Grillet, Firenze, La Nuova Italia, 1976, p. 161.

(8) Alain Robbe-Grillet intervistato da André Gardies in André Gardies, Alain Robbe-Grillet, Paris, Seghers, 1972, p. 121.

(9) Jacqueline Piatier, Entretien avec Alain Robbe-Grillet, On a tendance en France à refuser du sérieux à tout ce qui amuse, «Le Monde», 25 gennaio 1967.

(10) Tom Bishop, Geographie de Robbe-Grillet, in Jean Ricardou, a cura di, Robbe-Grillet: Analyse, Théorie 2. Cinéma/Roman, Paris, Union Générale d'Editions,1976, p. 65.

(11) André Gardies, Alain Robbe-Grillet, cit., p. 23.

(12) Roberto Nepoti, Alain Robbe-Grillet, cit., p. 67.

(13) Alain Robbe-Grillet, in Alain Robbe-Grillet: Analyse, Théorie. 2. Cinéma/Roman, cit., p. 74.

(14) Dominique Noguez, La marchesa si fece frustare alle cinque, ovvero : Spostamenti progressivi del piacere di Robbe-Grillet, in Id., Il cinema diversamente, Bologna, Cappelli, 1979, p. 181.

(15) Per un approfondimento sia della dimensione ludica, sia di quella relativa al senso aperto e in divenire del cinema del regista, rimando a Claudio Di Minno, Bisogna sempre parlare contro, in Claudio Di Minno, Caterina Taricano, Il gioco del piacere, il piacere del gioco. Il cinema di Alain Robbe-Grillet, «Mondo Niovo 18-24 ft/s», n. 3, 2009, pp. 4-13.