Zhao Liang, diplomatosi alla Luxun Academy of Fine Arts nel 1992, è tra le voci più sensibili del nuovo cinema documentario cinese, autore indipendente e scomodo quanto i colleghi Wang Bing e Ai Weiwei. All’attività di filmmaker accompagna quella di artista multimediale nei campi della fotografia e della videoarte e le sue opere sono state esposte in prestigiose istituzioni come l’International Center of Photography (New York), il Walker Art Center (Minneapolis), l’Haus der Kullturen der Welt (Berlino) e il Museo Reina Sofía (Madrid). Nella sua filmografia ricorrono ritratti di vittime del sistema capitalistico, generazioni senza futuro: Paper Airplanes (1997), sul mondo dei tossicodipendenti; Bored Youth (2000), opera di videoarte con protagonista un ragazzo che demolisce la propria casa; City Scene (2004), viaggio in una Pechino caotica e inquinata; Crime and Punishment (2007), che documenta i metodi scorretti e gli abusi delle forze dell’ordine in una stazione di polizia militare al confine con la Corea del Nord; Petition (2009), ambientato nel “villaggio delle petizioni” vicino a Pechino, dove si trovano gli uffici statali preposti a esaminare le richieste di risarcimento danni e dove soggiornano persone provenienti da tutta la Cina. All’ultima Mostra di Venezia, dove l’abbiamo intervistato, Zhao Liang ha presentato in concorso un lavoro molto diverso dai precedenti: Behemoth, un poema visivo che riprende la struttura della Divina Commedia dantesca: un golgota di miniere, città fantasma, paesaggi lunari, morti bianche degli operai.

Di Zhao Liang ha scritto il regista Albert Serra: “Nonostante sia fortemente coinvolto nella triste realtà del suo paese, le immagini di Zhao Liang non sono una descrizione della realtà: sono un inno. È il solo modo di sovvertire, di non essere schiavo della propria testimonianza. Zhao Liang non si limita a descrivere le ingiustizie sociali, le menzogne, gli abusi di potere… perché da autore ha capito come sia la realtà stessa a essere ingiusta e violenta. […] La sua pazienza deve essere uguale a quella dei querelanti di Petition, come si può vedere dal suo metodo di lavoro laborioso, ma il suo obiettivo è l’opposto. Non puoi cambiare la realtà, e così devi cantarla. Al punto di cercare la bellezza in ciò che è ingiusto? Sì, fino a quel punto”.

Il regista spagnolo Albert Serra ti ha definito il poeta della giustizia in Cina. Tutto il tuo cinema, in effetti, prende posizione in favore degli ultimi, degli emarginati, degli strati della società cinese che non hanno diritto di parola. Come valuti questo epiteto che ti è stato assegnato?

Il concetto di giustizia è molto complesso. Credo che ogni individuo possieda la propria dignità. Questo è un messaggio molto importante che intendo passare attraverso la mia opera. Ma non so se nel girare i miei documentari predomini un senso di giustizia o se si tratti di una mia vocazione personale, in cui ho tentato di esprimere una visione sulla società, sul lavoro e sull’ambiente.

Nella tua filmografia hai fatto uso di forme molto diverse. La più ricorrente è il documentario basato su interviste, come Petition e Crime and Punishment, ma hai realizzato anche film performance, come Bored Youth. Il tuo ultimo lavoro, Behemoth, sembra rientrare invece in una concezione nuova, dove arrivi a una sorta di lirismo apocalittico, una progressione all’inferno articolata come una sinfonia. Ci ha spiazzato perché è un lavoro estremamente poetico, vicino alla videoarte, che si confronta con tematiche devastanti. Come hai elaborato lo stile del film?

Ho cercato soprattutto di staccarmi dalle regole imposte dal genere documentario, che ha tutto un suo codice. Ho provato a sperimentare, per rendermi indipendente, non solo dal punto di vista delle tematiche ma anche sul fronte tecnico, delle strategie di ripresa. Ho sempre avuto il desiderio di fondere insieme la passione per l’arte e la mia attività di regista, operare una sorta di fusione tra la mia esperienza personale di artista e quella di filmmaker. Questo tipo di approccio mi rende un regista più libero, anche dal punto di vista delle tecniche espressive.

Nei tuoi documentari precedenti succede più volte che uno dei soggetti filmati ti chieda di spegnere la telecamera, perché quello che stai riprendendo forza i limiti di ciò che può essere mostrato. Per esempio, quando il poliziotto di Crime and Punishment prende a percuotere un detenuto. Scegliere di includere nel montato momenti come questo è una scelta forte, anche in relazione alla necessità del documentarista di rimanere invisibile, di non influenzare la realtà con la presenza della macchina da presa. Come lavori in questo senso?

Ogni documentarista affronta questa problematica a modo suo, anche a seconda della tematica del singolo documentario. Diciamo che cerco di volta in volta di adattarmi e non è sempre detto che l’influenzare o il non influenzare sia automaticamente sintomo di maggiore o minore efficacia. Si tratta sempre di diversi approcci che di volta in volta il regista deve scegliere in base alle proprie sensazioni e a come si sta sviluppando l’opera. Quando qualcuno non vuole essere ripreso, allora una tecnica, una soluzione, può essere proprio quella di mostrare che chi stava per essere ripreso non ha voluto. Si tratta di per sé di un messaggio molto forte nei confronti dello spettatore. Se poi ci sono casi in cui proprio non si è riusciti a riprendere nulla, perché ad esempio non si è riusciti a entrare in una miniera, si cercheranno modalità alternative per esprimere o descrivere la situazione che si intende presentare.

Hai sempre mostrato un forte interesse per la dimensione urbana e il suo sviluppo. In Bored Youth metti in scena la distruzione di un edificio, mentre in City Scene catturi la vita quotidiana di Pechino. Credo che questo discorso arrivi a compimento in Behemoth, dove sveli un urbanesimo che mangia la natura, inghiotte la campagna dentro enormi voragini.

Si tratta di un tema molto rilevante, dal mio punto di vista, un “mostro” che non è solo l’urbanizzazione ma anche la crescita economica, una macchina infernale che divora dimensione naturale, ma anche sociale e umana, della nostra epoca. Credo che la differenza tra le opere precedenti e quest’ultima è che se le altre venivano raccontate dal punto di vista di singoli individui, adesso ho una prospettiva più ampia, a volo d’uccello.

Implicita mi pare anche una presa di posizione contro il capitalismo. È così?

Assolutamente. Quella cinese è una situazione molto particolare, ma mi interessa anche parlare della globalizzazione a livello mondiale, perché si tratta di un fenomeno che travalica i confini nazionali. Una volta si trattava di ideologie, messe l’una contro l’altra; adesso si tratta di gruppi di persone ricche e potenti che si alleano tra loro. La situazione si è fatta molto più difficile, complessa. E direi che è senza dubbio peggiorata.

(Venezia, 12 settembre, 2015)