Un po’ per necessità un po’ per inclinazione sono in tanti ad aver iniziato il proprio percorso cinematografico lasciando scorrere la macchina da presa su spazi marcatamente delimitati. L’intenzione di rintracciarne la memoria o stanare nuove forme nel e dell’immagine è spesso la virtù principale di questi lavori, mentre la narrazione e i personaggi intesi come vettori (anche in presenza di questi ultimi sarà sempre il trattamento dello spazio a orientare ritmo e direzione del film) vengono marginalizzati. Basti pensare alla Akerman di La Chambre e Hotel Monterey e al primo Gitai (su tutti Bayit), ma anche a film più recenti come Il Castello di D’Anolfi e Parenti o Recollection di Kamal Aljafari.

Fi Rassi rond-point, primo lungometraggio di Hassen Ferhani, a giudicare dalla sinossi, potrebbe far parte della stessa famiglia. Il centro attorno al quale ruota il film è il mattatoio del quartiere Ruisseau di Algeri, dove la quotidianità viene scandita dalle conversazioni dei macellai, che parlano d’amore, d’identità (Zidane e Benzema hanno scelto di giocare per la Francia ma non cantano la Marsigliese) e di politica con identico trasporto. Il mattatoio è una “buona palestra” del cinema, in quanto le operazioni di macello pongono con insistenza la questione su cosa si possa o non possa filmare, ma dove l’etichetta di pornografico è piuttosto scivolosa. In Fi Rassi rond-point la faccenda viene però liquidata senza giocare troppo sul filo dell’ambiguità, lasciando regolarmente uccisioni e squartamenti fuoricampo (a parte un paio di scene stringate e tagliate dai margini dell’inquadratura), anche se la scelta sembra avere altro movente della sobrietà dell’immagine. Quest’ultimo sembra risiedere infatti nel sezionamento metodico che Ferhani pratica al tempo quotidiano, scartando gran parte di giornata e posto lavorativi a vantaggio di tempi morti e spazi improduttivi.

Il film si srotola “in pausa” fin dai primi minuti durante i quali due personaggi discutono, per niente imbarazzati, di cosa si provi ad amare una donna (un modo raffinato per evitarne l’esclusione in un film tutto al maschile). Lo sguardo sul mattatoio invece, viene sempre ostacolato, come esprime chiaramente la sequenza del “tiro alla fune”: mentre un nutrito gruppo guarda la partita della nazionale, un macellaio tenta di trascinare un toro (fuoricampo) in un’altra stanza (campo). Si alzano tutti e iniziano a tirare la corda, ma proprio quando il toro sta per muoversi X ancora seduto si alza piazzandosi davanti alla mdp. X si sposta, il toro è già passato e la nazionale segna. Tutti esultano, il segmento lavorativo è stato occultato e ci ritroviamo “in pausa”. Ma se siamo “in pausa” il posto di lavoro perde i connotati e il mattatoio equivale a un magazzino o a un ufficio. Dopo una ventina di minuti dunque, il mattatoio non è già più il perno del film, mantenendo tuttavia un ruolo vitale nell’economia dell’inquadratura grazie alla dovizia e corposità dei suoi colori. Il bianco della pietra di una parete, il rosso del sangue impastato ovunque o quello delle luci notturne, anche quando vengono confinati al fuori fuoco, riescono ad esaltare le forme e i corpi privilegiati.

A prendere il posto del mattatoio sono dunque i corpi dei macellai che si alternano davanti la camera parlando da soli, con un compagno o (dopo trenta minuti il primo intervento) con il regista. Spesso il loro personale viene “toccato” dal bordo del quadro instaurando con la mdp un corpo a corpo vivido ed elegante. Le conversazioni dei protagonisti ci ricordano però che non stiamo contemplando un quadro al Jockey Club di Proust. L’Algeria, stando alle parole di uno dei protagonisti, è una rotatoria a quattro uscite: ci si può suicidare, drogarsi, rubare e/o spacciare, salire su un barcone diretto in Europa. La melmosa impasse dello stato algerino contamina il “discorso personale” del proprio popolo, nel quale sospetto (“non diciamo bugie ma nemmeno la verità”, “la verità è come il vento nel vento”) e scoramento (“in testa ho una rotatoria con novantanove uscite e non so quale prendere”) fanno la voce grossa anche quando si parla dell’amore per una donna, riducendo al silenzio ogni possibilità di variazione dello status quo.

Ferhani costruisce un film di grande rigore formale ed elude il pericolo di estetismo guadagnando la fiducia dei protagonisti e ingaggiando con loro conversazioni appassionate, innestandosi perfettamente in una cinematografia (basti pensare alle opere di Tariq Teguia e Rabah Ameur-Zaïmeche) che indaga allo stesso tempo la condizione del proprio popolo e quella dell’immagine.