L’assenza dura, devo sopportarla. Devo quindi manipolarla: trasformare la distorsione del tempo in un andirivieni, produrre del ritmo, aprire la scena del linguaggio (il linguaggio nasce dall’assenza). L’assenza diventa una pratica attiva, un affaccendamento (che non mi consente di fare nient’altro). C’è la creazione di una finzione nella quale i ruoli sono molteplici (dubbi, rimproveri, desideri, melanconie). Questa messa in scena del linguaggio allontana la morte dell’altro. Manipolare l’assenza, significa allungare questo momento, ritardare per il tempo più lungo possibile l’istante in cui l’altro potrebbe precipitare duramente dall’assenza nella morte.

Roland Barthes, Frammenti di un discorso amoroso, 1977

L’adolescenza sullo schermo è una questione di materia, di silenzi, di musica, di velocità e di lentezza, di forma e di irregolarità. Costruire una forma più che raccontare una storia, restare fedeli al gesto perché è proprio la forma a permettere all’oggetto cinematografico di diventare caleidoscopico, suscettibile di assumere tante variazioni quante sono le sensibilità che si offrono alla sua visione. Con delicata ruvidità Kiss Me Not, primo cortometraggio di Inès Loizillon prodotto dalla G.r.e.c., mostra come l’amore possa essere impacciato e insensato da un lato, dall’altro ingestibile e inaspettato. La scoperta dell’amore è soprattutto la scoperta dell’altro, di uno sguardo estraneo, la cui consapevolezza è più forte nella sua assenza.

L’abilità della regista sta nella composizione visiva che isola gli elementi-chiave come le silhouette: il dettaglio in apertura dei pattini o la ripresa di Werner di spalle appoggiato al margine di una pista di pattinaggio, i gomiti rialzati, il bianco del ghiaccio come unico punto di riferimento, un’immagine così straniante da far pensare che il giovane stia contemplando dal bordo di una nave la distesa del mare o l’orizzonte del cielo. Lo spazio è imprescindibile garante del risultato, perché se la regia impone alla macchina da presa un perimetro di azione limitato, lo fa con la consapevolezza dei propri mezzi.

Erigere la pista di pattinaggio a unico sfondo è una scelta che permette a Kiss Me Not di biforcarsi; si parla davvero d’adolescenza, o l’adolescenza è un pretesto per filmare il fascino per il ghiaccio? Fin dai primi minuti, la silhouette di Blanche ammalia, ancor prima che i suoi compagni e soprattutto Werner ne siano incantati. I suoi pattini scivolano fluenti sulla superficie liscia, sbriciolata, segnata dai suoi movimenti.

Autentico abuso ma soprattutto irrinunciabile necessità, di adolescenza se ne parla tanto nella storia del cinema così per il regista che oggi decide di realizzare un film adolescenziale si tratta da un lato di mettersi alla prova con una lunga tradizione cinematografica – ed è bene ricordare come per loro essenza i teen movies si prestino più facilmente a diventare dei cult – dall’altro lato la sfida è nella ricezione: perché lo spettatore dovrebbe sorbirsi l’ennesimo film a tematica adolescenziale? E una volta ottenuta questa disponibilità come tenerlo incollato allo schermo?

In Kiss Me Not probabilmente il dubbio e una buona dose di ambiguità magnetizzano l’attenzione allo schermo. Dubbio è il gioco di sguardi tra Blanche e Werner, singolare in quanto è unicamente il montaggio che rende possibile questo scambio di sguardi, avvicinando i due giovani protagonisti, facendo sì che l’infatuazione reciproca sia visibile per il pubblico ma invisibile alla coppia. E il fascino è tutto lì, in Blanche che dubita che i sentimenti di Werner possano corrispondere ai suoi, esitante ad uscire dallo spogliatoio e raggiungere il gruppo – Werner incluso – sulla pista di pattinaggio, nonostante sia probabilmente una delle migliori pattinatrici della pista.

Interessante è il modo in cui Inès Loizillon si appropria di diffusi cliché trasformandoli secondo le proprie inclinazioni estetiche. Lo spogliatoio, da ambiente anonimo e vuoto diventa allora il luogo dove è possibile sognare ad occhi aperti, dando libera voce ai propri sentimenti. Nonostante l’anonimato di panche e appendiabiti, la stanza si carica così dello stesso valore e dello stesso significato della camera da letto, regno per eccellenza di tutte le ragazzine adolescenti, e simbolo di protezione, di costruzione di un rifugio fuori dal reale dove tutto è possibile, in primis sognare. È proprio ciò che rende affascinante il film, mai acerbo ma costantemente infuso di dolce insolenza.  È strafottente o timida – ma che importa in fondo che sia l’una o l’altra cosa o entrambe finché la curiosità e l’attenzione sono mantenute vive? – Blanche quando indugia nello spogliatoio prima ripassandosi lo smalto – in sottofondo la musica dalle cuffie si impone sul décor incolore –, poi cominciando a ritagliare un paio di pattini da una rivista specializzata in articoli sportivi? Dall’altro lato, al centro della pista la situazione è speculare, sebbene circondato dai suoi amici Werner è assente, a disagio perché in testa non ha che Blanche. Rimugina silenziosamente con lo sguardo sempre altrove, fissato sul perché la ragazzina si attardi ad uscire dallo spogliatoio. Werner non riesce a pattinare, né a lasciarsi coinvolgere dagli scherzi e dalle battute del gruppo, mentre gli altri giocano col flipper, rimane in disparte a giocherellare con una cannuccia.

Contrariamente a Blanche, le cui fantasie non prendono forma sullo schermo ma assumono la forma di passatempo, la macchina da presa si appropria delle divagazioni amorose di Werner per metterle in vita cinematograficamente. La scena del bacio – splendida la fotografia e la luce accecante che dà risalto al maglione bianco di Werner, in forte contrasto con il corridoio avvolto dal nero totale – in cui il ragazzino, di spalle, procede cautamente verso il fondo è un susseguirsi d’istanti di bellezza ipnotica. Ad un tratto, nel silenzio totale, un primo piano di Blanche in tutù e con i pattini sulla spalla, come un miraggio. Werner allora può finalmente strapparle un bacio. Baiser volé, o meglio rêvé, il rumore della bufera, una scossa per riprendersi: Werner sogna ad occhi aperti. L’irrealtà della situazione è solo suggerita dal montaggio alternato che svela, mentre Werner percorre il corridoio, le immagini di una montagna innevata.

E infine la pista di pattinaggio deserta, Blanche pattina e vorrebbe che Werner fosse lì a guardarla e, in un certo senso, è un segnale che lui riesce a percepire; perché altrimenti restare da solo in strada, con il viso poggiato sulla griglia della recinzione, lo sguardo fisso verso la pista di pattinaggio, quando ormai tutti sono tornati a casa?

Mettere in rilievo la sensibilità di Werner è una scelta femminista, di un femminismo attuale che non condanna l’universo maschile ma lo rende protagonista diversamente, rompendo il cliché sulla virilità del maschio, abbattendo il luogo comune del beau ténébreux che fa ricadere sulla figura femminile una predisposizione alla sensibilità e al romanticismo. Rivelare invece la sua parte sensibile, suscettibile di divagare sull’essere amato, seguendo una linea simile ai Fragments d’un discours amoureux di Roland Barthes, significa affrontare in campo cinematografico il discorso sul genere, in maniera sottile ma incisiva.