Arriva in Italia Ti guardo (in originale Desde allá): se il Leone d’oro ci parve esagerato, e così ci pare tutt’ora, comunque sia ribadiamo che si tratta di un bell’esordio a cui auguriamo fortuna. È una sorta di condensato in versione minimale di varie tematiche universali che mette sullo sfondo questioni più strettamente legate all’odierno Venezuela, in maniera sostanzialmente simbolica o allegorica. Nei più piccoli interstizi della narrazione, cioè nella sceneggiatura, nella regia, nel montaggio (abbastanza serrato nella relativa lentezza narrativa) e nei dialoghi, ma anche nei silenzi e nelle espressioni dei personaggi, è celata infatti una polifonia di significazioni che s’intrecciano tra loro con discrezione, con delicatezza, senza ostentazione metaforica, senza esibizione di regia (un male del cinema contemporaneo del Sudamerica, sempre più ostentato e senza finezze, dal pluripremiato El Clan di Trapero fino a Revenant di Iñárritu) o levigatezza estetica, eccessi di artifici in fase di post-produzione, sebbene alcune metafore siano più evidenti e facciano da ponte per lo spettatore guidandolo verso quelle meno.

L’attore feticcio del cileno Pablo Larrain, il compatriota Alfredo Castro (anche regista teatrale), è una maschera impenetrabile, un’espressione fissa, congelata nel grigiore meschino di una vita senza vita. Armando, questo il nome del personaggio di Castro, spezza le sue paludose giornate di fabbricatore di dentiere (cioè un oggetto che serve a mantenere una parvenza di salute e giovinezza di vita nella vecchiaia, un simulacro di vita) rimorchiando giovani marchette. Finisce per legarsi a un ragazzo, Elder, interpretato da Luis Silva con sorprendente vitalità, naturalezza e verità. Una vitalità intrisa d’inquietudine dietro la rabbia. E bisognosa di amore. Amore interiore, certo, ma inscindibile da quello fisico.

La fisicità di Elder è prorompente tanto quanto il ritrarsi di Armando, il quale paga i ragazzi per farli spogliare, guardarli e masturbarsi. Armando crea un legame con Elder malgrado sé, poiché è il frutto di una società egoista. Le “anime” sono sole, isolate, abbandonate e abbandonano a loro volta. Sono i carnefici ma anche le vittime, metafora delle relazioni affettive, non solo sessuali. Relazioni che Armando rifiuta e che invece, paradossalmente, riesce a rendere ancor più crudeli e spietate. Appare disturbato nella sessualità, si profila un problema non risolto con la sua fisicità. Quanto al padre di Armando, ricco banchiere dei quartieri alti, è chiaramente isolato nel mantenimento cieco del suo potere, e così lo stesso Armando: due specchi che si negano. Ma il bisogno disperato di carnalità di Elder nasconde l’anelito a trascendere l’isolamento delle anime dannate imprigionate in questo limbo-inferno. Nella prosaicità di un cinema naturalistico e quasi cronachistico, l’opera rivela dunque una riflessione esistenziale e metafisica, oltre all’analisi sociologica che pare quasi deterministica mettendo chiaramente i comportamenti in relazione agli ambienti di vita di ciascuno. È infatti evidente che i tre personaggi, Armando, suo padre (quasi del tutto fuori campo) e il ragazzo, sono assieme la metafora di tre strati sociali che non comunicano e si ignorano (nel migliore dei casi) e dei tre stadi della vita, che paiono anch’essi come slegati tra loro. Privi di unitarietà.

Rimangono allo spettatore le espressioni di Elder sempre rivelatrici di qualcosa dell’ordine dell’interiorità o dei sentimenti primari, mentre Armando, indefinibile nella sue espressioni facciali, nulla lascia allo spettatore perché nulla ha da lasciare al genere umano. Parliamo ovviamente dei personaggi, non degli attori, entrambi davvero notevoli nel costruire due rovesci: la carnalità sensuale dell’uno viene annichilita dall’algida assenza di luminosità fisica dell’altro. Materia e antimateria, si direbbe. E i continui ribaltamenti di situazione di cui è costellata buona parte della narrazione enunciano che siamo di fronte ad un’opera che lavora all’incastonarsi delle specularità che si susseguono lungo il film. Ti Guardo – ma non so vederti, in verità, perché mi è molto più comodo mantenere la distanza e non implicarmi – è un film specchio, al cui interno troviamo segmenti, frammenti isolati di quel medesimo specchio.

Negli sguardi, nei silenzi del film c’è spesso come l’attesa di qualcosa, qualcosa che sembra arrivare ma non arriva. E quando finalmente arriva è la fine della speranza. Ma se il potere non muore mai, rimane allo spettatore l’occasione per una riflessione profonda su un lascito, quello di un potere umile, modesto, che non ha potuto fiorire. Il lascito di vita di un ragazzo di strada a cui per un breve momento è stato fatto credere nella possibilità di una vita “altra”.

DESDE ALLA di Lorenzo Vigas, Venezuela/Messico 2015, 93′. In sala dal 21 gennaio (Cinema).