Vedo la foto di una via di Jaffa. In primo piano un muro antico smangiato e rugoso, accanto è parcheggiata un’auto blu e una finestra in legno si sporge sulla via. Lo sguardo si avvicina al muro, appaiono chiazze d’un verde scuro e brani scrostati. Qualcuno attraversa la strada: la foto non è una foto, ma un’immagine in movimento. Là in fondo compare un uomo dalla schiena curva, i capelli bianchi. Procede claudicante verso un ingresso, ma non lo raggiunge. Il mondo si arresta, l’uomo rimane come congelato in fondo alla via. Nel fermo immagine l’occhio continua a percorrere le pareti arabe, l’auto scompare dall’inquadratura. La sequenza si ripete, l’uomo cammina e rimane sospeso ancora; in sottofondo lievi rumori di ferraglie, passi accennati e voci soffuse arrivano da lontano.

Dopo The Roof e Port of Memory, Recollection è il terzo lungometraggio di Kamal Aljafari. Il regista palestinese torna a interrogare i ricordi che abitano i luoghi segnati dal conflitto. Nel buio della sala, ero al festival del cinema di Torino, le immagini m’invitavano ad avanzare passi malsicuri fra le vie di Jaffa, esplorare i vicoli, soffermarmi sulle macerie lasciate dal conflitto del 1948. All’origine di Recollection risiede il progetto di un album fotografico della Jaffa nel secondo Novecento. Ma le foto sono attraversate da tre movimenti. Il mondo si muove – la risacca lambisce la costa, torna indietro; frammenti leggeri di materia sono carezzati dal vento – perché queste apparenze provengono da repertori filmici del passato, brandelli di cinema israeliano fra gli anni Sessanta e gli anni Novanta. L’autore, ed è il secondo movimento, vaga fra le immagini: ingrandisce particolari, arresta un frammento di tempo, torna indietro, procede in avanti, ripete una sequenza. Infine Aljafari monta insieme visioni, spezzoni, ingrandimenti sgranati: le sequenze si dispongono lungo un percorso. La movenza originaria dell’immagine filmica, la manipolazione errante dell’autore e il montaggio suggeriscono allo spettatore il senso d’una camminata.

Qualche mese dopo il festival anche io mi trovo a Jaffa, e cammino. La città araba d’un tempo è parte di Tel Aviv: dal porto appare il minareto dai riflessi verde acqua, sullo sfondo i grattacieli di vetro si stagliano contro l’azzurro. Molti palestinesi lasciarono le loro case nel 1948, ma una minoranza rimase e i loro discendenti ancora abitano qui. Vedo due donne velate, due sagome nere, camminare lungo il molo con un passeggino, alle spalle hanno pescherecci, navi di piccolo cabotaggio, tavoli di ristorantini affollati da turisti e israeliani ebrei. Nel film di Aljafari la scalinata sulla collina sopra il porto appare sconnessa fra muri ingrigiti, ora è un camminamento di un’ocra pulito e riposante, conduce a ricche abitazioni restaurate, ad alberghi di lusso. Dal molo ragazzi arabi si tuffano in schiamazzi divertiti.

L’occhio di Aljafari scorre su un cumulo di macerie, o segue la linea smussata di un muretto, poi il percorso dello sguardo torna indietro, come quello di un passeggiatore che intende ispezionare meglio il luogo circostante. Ma che senso dare a “indietro”? Indietro nello spazio, e anche nel tempo: la pellicola originaria è percorsa al contrario e gli oggetti ritornano alle posizioni precedenti. Recollection è un volgersi nello spaziotempo. La rimembranza recupera un tempo trattenuto in luoghi d’affezione: è un’esperienza dove la storia appare come l’altro versante della geografia. “C’è una pietra nell’angolo, […] è dove mio nonno sedeva con la sua piccola radio a transistor nei pomeriggi d’estate”, scrive Aljafari nella poesia che conclude il film. “Ancora posso udire il suono delle rondini riparie”. I suoni del film, non a caso, sono stati registrati nel 2015, a Jaffa. Il rumore di passi che sentiamo mentre esploriamo le immagini appartiene al presente e ritorna al passato.

Ora cammino fra le strade di Jaffa con il mio amico Ilan, ebreo israeliano. “Ho vissuto a Jaffa per sette anni, abitavo in questo quartiere di frontiera. Da un lato la città vecchia rinnovata per turisti occidentali e ricchi ebrei; dall’altro i nuovi isolati arabi a sud del porto. Ero sulla frontiera, qui in via Yehuda Hayamit: gli arabi e gli ebrei si incrociavano sullo stesso pianerottolo”. Ancora questo luogo mi pare la confluenza – turbolenta, non pacifica – di due mari: dai muri disfatti dei condominii popolari pendono sparute bandiere israeliane, una donna velata accompagna i figli al parco giochi, odo una melodia araba provenire da una finestra aperta. “Ricordo – dice Ilan – ricordo che davanti a questo portone incontrai per la prima volta la mia ragazza. Qui c’era l’atelier di un artista ebreo. S’era trasferito perché voleva stare con gli arabi, parlare con loro, ma non riusciva a farsi capire”.

Il film di Aljafari attinge dal cinema israeliano dei decenni trascorsi. Jaffa era il set suggestivo di dolci storie d’amore e avventure e inseguimenti. L’autore di Recollection cancella gli attori e lascia emergere una città segnata da traumi: era l’epoca delle macerie, dei muri franti prima del rinnovamento. Fra le rovine ecco appaiono delle sagome come quella dell’uomo claudicante. Sono persistenze, fantasmi di ritorno che incidono l’inconscio ottico della macchina da presa israeliana. “Un’immagine dura più a lungo di un essere umano”. Aljafari recupera un repertorio visivo e ne rimesta il fondo per richiamare al presente tracce in riposo latente. “L’angolo di strada dove l’auto è parcheggiata sta di fronte alla casa di mia nonna”, evoca il poeta alla fine.

Inquietante apparizione di bambina araba aggrappata a un palo della luce. Guarda verso la macchina da presa e appoggia un indice contro la punta del naso. Forse suggerisce: silenzio ora, fate silenzio, non dite che sono qui, ci sarà un tempo per tornare. In questo caso il lavorio sui repertori filmici ambisce a una salvazione del rimosso. Ma il gesto potrebbe anche significare: sono fra coloro che non hanno parola, allora come oggi appartengo al mondo del silenzio. Oggi, a Jaffa, cosa dicono i muri? Ilan mi traduce graffiti in ebraico: “Quel che dobbiamo fare è uscire dalle guerre”, “Senza guerre vivremo meglio”. Un bambino con il volto di Netanyahu sta in braccio alla Madonna, sotto leggo “Sweet Bibi Jesus”. Come interpretare? Non sappiamo cosa pensare, siamo così disorientati in questa macina di storie e vite, spersi come la voce di bambina nel dialogo registrato.

“Dove vivi?”

“Abito a Nahal Oz, mia nonna vive qui.”

“Dove?”

“A Nahal Oz.”

“Dov’è Nahal Oz?”

“C’è un posto che si chiama Nahal Oz.”

“A Tel Aviv?”

“No.”

“A Jaffa? Chi è tua nonna?”

“Sumaia.”

“Dove vive?”

La rimembranza di Aljafari interroga i frantumi ereditati da guerra e abbandoni: la Jaffa di quarant’anni fa lasciava intravedere le tracce del tempo precedente al conflitto. Oggi le macerie sono in via di sparizione. Mi racconta Ilan: “In pochi anni, da quando me ne sono andato, tutto è cambiato. Qui c’era il mercato delle pulci. Ora gran parte dei locali sono stati comprati e i robivecchi ebrei se ne stanno andando. Al loro posto nascono locali per giovani israeliani e turisti”. In via Rabbi Nahman incontro un bar esotico con musica reggae, uno shop di borse, un atelier di design, una vetrina di collane e una boutique la cui insegna recita: “Bobo Bourgeois Bohème”. Un’antica casa araba che s’affaccia sul Mediterraneo è lucida di rinnovamento e una targhetta avverte: “Jures Jaffa Real Estate Investment”. “Vedi quelle due abitazioni che si fronteggiano? A sinistra una è ben messa, in ottime condizioni; di fronte invece ci sono quelle persiane rotte e pendenti, e quelle crepe. Vedi? Tutto si trasforma e diviene come la prima casa. Questo ristorante con la veranda non c’era”. Poi mi ha guardato e mi ha chiesto: “Perché mai dovremmo criticare questa onda di investimenti?”. “Ilan, quale Jaffa preferivi?”. “Quella di prima”.

In Recollection un uomo con lo zuccotto bianco e la camicia esce da una bottega, si volta. L’immagine si arresta e il fantasma è intrappolato sullo schermo per qualche secondo. Io non so quanti arabi si allontanarono dopo il 1948, non so quanti siano stati sfrattati nei decenni successivi, quanti oggi. E se questi processi urbanistici, oggi, coinvolgessero esistenze umane senza distinzioni di identità? Se la valorizzazione immobiliare fosse trasversale al conflitto arabo-israeliano? “È un bel pensiero, ma non credo sia corretto. Esiste un divario fra ebrei ed arabi, e i primi non patiscono lo sviluppo della città con la stessa violenza”. Verso la fine del film appaiono uomini e donne in abiti borghesi, stile anni Settanta, che camminano per le vie di Jaffa. Chi sono? È una marcia? Una musica malinconica e solenne li accompagna.

Io e Ilan sostiamo in un caffè gestito da arabi israeliani, il “Chay Guevara Risto Bar”: l’interno è arredato con immagini del comandante argentino, attorno noto manifesti in arabo e in ebraico. Ricorda Ilan la sua vita a Jaffa: “Ho lavorato nella casa di lusso nel centro storico, quella di fronte all’albergo con terrazza panoramica. Il proprietario era un ebreo molto ricco, io ho lasciato il lavoro dopo pochi mesi perché mi sentivo soffocare”. Il caffè costa tanto e viene servito con un biscotto poggiato sul piattino. La proprietaria ci racconta che ogni sera allestiscono un tavolo unico dove siedono gli abitanti arabi ed ebrei del quartiere. In bagno qualcuno ha disegnato una bandiera palestinese e un adesivo ricorda: “The workers united will never be defeated“. E Aljafari recita nel poema che conclude le rimembranze: “L’uomo in giacca bianca è il barbiere polacco”. Ilan va via e io mi trovo solo, anche io nel mio sogno di Jaffa, un sogno di cantieri e pannelli che annunciano un futuro.