Romeo Aldea è un uomo di mezza età, un medico, con una giovane figlia in procinto di conseguire il diploma e destinata a decollare poi verso l’università in Inghilterra. L’improvvisa aggressione ai danni della ragazza scombussolerà i piani dell’uomo. Siamo in una cittadina ordinaria della Transilvania, fatta di palazzoni anonimi che si susseguono tutti uguali, popolati di cani randagi e bambini che giocano, trionfo dei non luoghi. Un agglomerato urbano senza anima, alienante, uguale a tante realtà periferiche in tutto il mondo. Romeo e il microcosmo che lo circonda sono l’oggetto del nuovo film di Cristian Mungiu, Bacalaureat. Romeo appartiene alla stessa generazione del regista e una battuta chiave alla metà del film ci aiuta a capirne il punto di vista. Il medico racconta di come nel 1991, alla caduta del regime, abbia preferito rimanere in patria e non scappare all’estero come tanti coetanei, proprio perché sentiva il dovere della ricostruzione del paese, l’euforia di contribuire alla sua rinascita dopo la stagnazione della dittatura. Per Mungiu, che ha spesso raccontato la Romania durante l’età dell’oro, come venne definito dalla propaganda il regime di Ceaușescu, torna ad occuparsi di quella frattura della Storia, di cui ancora oggi si percepiscono i postumi. La disillusione del protagonista è quella del regista che partecipa a pieno titolo alla desolazione morale cui il paese è ridotto, fatta di corruzione diffusa, sotterfugi, piccole raccomandazioni. Romeo, che non esita a ricorrere alle scorciatoie illecite, e si arrabbia quando scopre, a seguito dei referti medici conseguenti l’aggressione, che la figlia aveva da poco perso la verginità e si era confidata in merito solo con la madre, è il primo a sua volta a portare avanti una relazione extraconiugale. Romeo è l’emblema di quei giovani che volevano rimboccarsi le maniche per ricostruire il paese, e ora rappresentano una quanto mai mediocre borghesia.

Romeo vorrebbe evitare che la figlia segua i suoi errori destinandola a un’esperienza di studio all’estero. L’aggressione, poco chiara, che la ragazza subisce, scombussola i piani dell’uomo che arriva a far carte false pur garantirle un futuro migliore. Su istigazione di un suo paziente dall’aria losca, cerca così di sistemare la faccenda pilotando la promozione della figlia. Una volta scoperto, saranno gli stessi poliziotti che conducono l’indagine a mostrarsi comprensivi nei suoi confronti. La centrale di polizia è l’evidente metafora della Romania contemporanea: tutto annega nella burocrazia, tutto sembra improntato a un senso di immobilismo. Un poliziotto dorme sul posto di lavoro. Non importa quello che succede, tutto si sistemerà in un modo o nell’altro. Un mondo che avvinghia chi ne fa parte. Sembra infatti di capire che la figlia di Romeo non voglia in definitiva andare in Inghilterra, anch’ella frenata dalla forza centripeta del suo paese. Al punto di aver una contro-macchinazione rispetto alle manovre del padre.

Il microcosmo del film è un cortile dove si affacciano numerose finestre, tutti si osservano e si spiano, tutti hanno piccoli segreti inconfessabili, tutti sanno qualcosa in più di quello che dovrebbero. Sarà ancora la figlia a rivelare alla madre, che pure lo sospettava, dell’amante di Romeo. Così è per lo spettatore, il cui sguardo è quello distaccato, entomologico, da lontano, della telecamera di sorveglianza. Lo spettatore non è onnisciente. Tanti elementi che vengono suggeriti da Mungiu non troveranno né sviluppo né risoluzione, eludendo le aspettative spettatoriali secondo un sistema classico di narrazione. Proprio come la telecamera di sorveglianza, che avrebbe dovuto essere determinante nello scoprire l’identità dell’aggressore, destinato di fatto a rimanere fuori campo. Così per Mungiu l’episodio della violenza alla ragazza funziona come il McGuffin hitchcockiano, il pretesto narrativo che ci permette di scoprire tanti aspetti differenti di quel microcosmo. Sarà poi il malore improvviso della nonna, di cui si accorge per prima la figlia, il vero sasso narrativo lanciato nel film, che rimetterà in discussione i vari fili e raccordi tra i personaggi. Dalle riprese video si evince un’altra cosa, che il fidanzato della ragazza, che si trovava a un passo di distanza, non è intervenuto a difenderla. Ci rivela quella tendenza all’inazione, al quieto vivere, al non esporsi che è ancora una metafora della società della Romania contemporanea.

Tanti altri aspetti rimangono fuori campo nel film. A partire dall’identità del misterioso vandalo che si accanisce contro Romeo, spaccando a sassate i finestrini della sua auto o alzandogli i tergicristalli. Da un lato tutto rientra nel ritratto di Romeo, persona mediocre e antipatica che non può non tirarsi dietro i dispetti di qualcuno. Dall’altro corrisponde a quel gioco con le convenzioni narrative tipico del nuovo cinema rumeno. Chi è il misterioso vandalo? È il bambino mascherato che si vede giocare in cortile, o uno degli altri personaggi, a ordire questa macchinazione? Anche questo whodonit, come per l’aggressore, rimane celato tra le pieghe narrative del film.