L’ultima edizione del Festival di Cannes ha trovato nella selezione della Semaine de la Critique uno spazio particolarmente vivace, con la presenza di titoli che hanno segnato in modo importante per critici e operatori l’intera kermesse. Basterebbe citare Grave di Julia Ducournau, Diamond Island di Davy Chou o I tempi felici verranno presto di Alessandro Comodin per dare l’idea di come la sezione collaterale del festival dedicata alle opere prime e seconde abbia mostrato quanto di meglio avviene a livello mondiale in quel cinema “nuovo” – almeno sul piano generazionale – che mescola le carte fra generi e pratiche. Quarto titolo che ha certamente contribuito a imporre l’eccezionalità e il dinamismo di questa Semaine è senza ombra di dubbio Mimosas di Oliver Laxe, di ritorno sulla Croisette dopo Todos vós sodes capitáns, presentato nel 2010 alla Quinzaine des Réalisateurs e vincitore del premio FIPRESCI. Laxe porta così finalmente a compimento, con il fratello produttore Felipe e la sua Zeitun Films (che produce fra l’altro anche Lois Patiño), un progetto sul quale lavorava da tanti anni è che ha avuto non poche traversie produttive. Mimosas è un film di straordinaria maturità, giustamente vincitore del Gran Premio della Semaine de la Critique, che lo impone come uno degli autori più significativi della sua generazione.

Siamo in Marocco, in un tempo lontano non meglio identificato. Uno sceicco vuole più di ogni altra casa tornare a Sijilmāsa.. Sente che la morte sta per arrivare e non può non esalare l’ultimo respiro nella sua città. Il cammino per la sua carovana però è ancora lungo e l’unico modo per raggiungere velocemente la destinazione è attraverso i monti dell’Atlante. L’intera comitiva vorrebbe rifiutarsi di intraprendere un simile percorso e a detta di tutti non esiste nessun sentiero percorribile in grado di portarli alla meta. Soltanto due fra loro sembrano discostarsi dal gruppo: sono Ahmed e Saïd, giovani unitisi allo sceicco con l’intento iniziale di derubarlo. Nessuno ovviamente potrà opporsi al volere dell’anziano leader, nei confronti del quale Ahmed avverte da subito un legame particolare. Sembra che quella figura così lontana rappresenti un’anticipazione del suo destino, sembra che quel viaggio, apparentemente assurdo e suicida, sia stato intrapreso proprio per lui. Il gruppo procede a stento fra rocce e sentieri accidentati, fino a una notte in cui lo sceicco misteriosamene scompare. Verrà ritrovato la mattina seguente, ormai morto. A nessuno a quel punto  importa più del volere dell’anziano e l’unica cosa che resta da fare è dargli sepoltura rispettando la sua volontà di giungere fino a Sijilmāsa. Saranno proprio Ahmed e Saïd, spinti dal denaro offerto per portare a compimento l’impresa, a ritrovarsi soli ad affrontare una natura impervia e le minacce di oscure e misteriose presenze. Parallelamente al percorso dei due portatori, in un tempo che potrebbe essere il nostro, Shakib, dai più considerato l’idiota del villaggio, viene incaricato di prendersi cura di Ahmed e di accompagnarlo in un percorso che lo porterà a fare i conti con se stesso e con la propria natura più profonda.

Laxe rivendica con forza l’idea di un cinema che possa essere strumento per una ricerca spirituale, trasformando un viaggio nello spazio e nel tempo in un’esplorazione tutta interiore. In questo, il regista conferma e rilancia le scelte ibride di Todos vós sodes capitáns. Che la lavorazione del film fosse stata complessa era chiaro guardando The Sky Trambles and the Earth Is Afraid and the Two Eyes Are Not Brothers, ultimo film di Ben Rivers girato proprio sul set di Mimosas, e questo rende, agli occhi di chi ha visto il film di Rivers, ancora più straordinario il lavoro di Laxe. La forza e la “fatica” tutta documentaria cercata nel lavoro con gli attori, unita ad un profondo senso della dimensione spaziale e del paesaggio, si sposano perfettamente con una matrice quasi di genere, per come nel film risuonano echi di western che vanno da Ford a Monte Hellman. Il mito e l’epica del genere cinematografico per antonomasia segnano la cornice e le linee prospettiche del film. Quello che Laxe dipinge all’interno di questo frame è invece qualcosa di profondamente radicato nella prassi del cinema del reale.

Negli anni della preparazione del film Laxe si è avvicinato alla tradizione Sufi e il film è ripartito in tre capitoli in cui ciascuno porta come titolo il nome di una delle posizioni della preghiera rituale islamica. Non ci troviamo però di fronte in alcun modo ad un film “confessionale”. Come dice Shakib ad Ahmed, all’inizio scettico rispetto all’impossibilità della loro missione: “Io prego costantemente. Anche quando guardo questo paesaggio o mentre sto parlando con te”. La fede di cui è pervaso il film è quella in un cinema che sappia essere un atto etico ed estetico radicato nel carattere immateriale e atemporale della visione, ma al contempo mosso da una dialettica costante con il mondo e la sua materialità. Questo per sgomberare il campo da ogni forma di estetismo. L’invisibile che respira in tutto il film risiede nello spazio e nei corpi ed è la sostanza di cui è fatta questa parabola di crescita. L’invisibile attraverso il visibile. Il superamento di sè attraverso il miracolo del cinema, grazie al quale è possibile oltrepassare ogni distanza nel tempo e nello spazio. Come dice Shakib ad Ahmed, prima di lanciarsi in uno scontro finale il cui esito il film non mostra: non importa se la sfida pare troppo ardua e la battaglia destinata alla sconfitta. Nel perseguire ciò che pare impossibile ai più risiede la vera strada verso la comprensione più profonda della propria natura. “Noi vinceremo”, grida Shakib prima di sfoderare la sua spada. Armati soltanto dell’amore.