Il cinema di Laurence Thrush è una contaminazione tra documentario e finzione, un cinema marginale in cui l’uso del bianco e nero, la vasta tonalità di grigi, sono funzionali a un approccio intimistico alla marginalità sociale. Il regista inglese trapiantato a Los Angeles formula attraverso due lungometraggi, dai titoli evocativi Tobira No Muko (2008), uscito in Francia con il nome De l’autre Côté de la Porte, e Pursuit of Loneliness (2012), ovvero alla ricerca della solitudine, una poetica della distanza, puntando anzitutto sul gioco di assenza e presenza dei protagonisti. Hiroshi, adolescente giapponese che decide di rinchiudersi per due anni nella sua stanza diventando un hikikomori, è il personaggio principale di Tobira no Muko, nonostante sia fisicamente assente per la maggior parte del film. Allo stesso modo, Thrush fa di una defunta la protagonista del secondo lungometraggio che ripercorre a ritroso gli ultimi giorni di Cynthia, donna anziana e sola, residente in una Los Angeles che sembra essere stata disertata per l’estate afosa. Utilizzando diversi espedienti come il motivo dell’ombra, l’utilizzo di flashback o di testimonianze esterne, la sfida maggiore sarà quella di rendere queste presenze tanto più centrali quanto maggiore è la loro assenza. Si tratta allora di ricostituire due profili specifici, attingendo da voci eterogenee, perché la distanza aumenti e impedisca il pericolo di immedesimazione passiva, laddove questa diventa sinonimo di una spettacolarizzazione e di un patetismo fini a sé stessi. In altre parole, nel caso di Cynthia, servendosi delle diverse testimonianze che portano di lei i vicini o la farmacista, il regista utilizza la finzione in chiave documentarista e cioè come strumento che offre diversi punti di vista, i quali ricostituendo un profilo composito e impreciso, fanno in modo che la vicenda non scada nel particolarismo. «Oggi vorrei davvero vederti, ma anche se desidero vederti, quello che voglio è che tu mi apra la tua porta perché è il tuo territorio, dall’altro lato della porta».

Fondamentale in Tobira no Muko è la riflessione sull’incomunicabilità, presente non solo nei rapporti che legano fra loro i personaggi ma anche in una componente visiva ed estetica. Specchi, vetrate e superfici trasparenti impediscono la comunicazione diretta, come la porta che separa la madre dal figlio rinchiuso in bagno, mentre la donna cerca di capire cosa stia accadendo a Hiroshi, e il volto di questo appare solo indirettamente, come riflesso nello specchio. In maniera più evidente, durante la scena in cui il padre di Hiroshi mangia da solo la cena, dando le spalle alla moglie, seduta dietro di lui sul divano, il volto fuori fuoco dell’uomo contrasta con la nitidezza del profilo della donna, sottolineando così l’incomunicabilità tra i due coniugi. D’altronde scarsi sono gli argomenti di conversazione tra i due, e se la madre diventa vittima dell’isolamento del figlio e per riflesso comincia anche lei a rinchiudersi in sé stessa, il padre spicca per il disinteresse mostrato riguardo la situazione del ragazzo. Le sue preoccupazioni rivelano tutta l’ipocrisia e l’egoismo dell’attitudine borghese: in uno dei rari momenti di dialogo, questo si limita a far notar alla moglie di non aver più scarpe pulite per andare a lavoro, o ancora, messo alle strette dalla moglie preoccupata per la situazione del figlio, rifiuta di chiedere aiuto esterno perché è una vergogna avere un figlio che si ostina a non uscire dalla propria stanza.

Il momento che segna una rottura drammatica incisiva corrisponde all’arrivo di una lettera dalla scuola di Hiroshi, lettera consegnata da una compagna che si limita a recapitare la missiva senza preoccuparsi di chiedere come stia Hiroshi, il che lascia trapelare la mancata integrazione del giovane nel contesto sociale. La lettera pone il giovane hikokomori di fronte a un aut aut: si tratta di decidere se continuare o lasciare definitivamente gli studi, rinunciando alla possibilità di una carriera professionale gratificante. La scena riprende la stessa dinamica di una precedente, il momento in cui due donne bussano alla porta della casa; se è lecito immaginare che si tratti di una visita per Hiroshi, quando la macchina rivela la donna in casa, restia ad accogliere le visite, risulta evidente come sulla madre si ripercuota la patologia del figlio.

Il dettaglio nel cinema di Laurence Thrush serve soprattutto a costruire una rete di connessioni sotterranee, nella maggior parte dei casi decifrabili attraverso la ripetizione di un elemento che serve a suggerire implicitamente il substrato psicologico del personaggio. Così la scena in cui la donna cerca di aiutare il marito a riposizionare la lente a contatto sulla pupilla può essere letta come un cenno alla cecità del padre nei confronti del figlio. Nella stessa inquadratura infatti, sebbene il padre risponda di non avere tempo, la moglie espliciterà al marito il bisogno di discutere sulla situazione di Hiroshi. È solo quando il padre, rientrando a casa dal lavoro, si ritrova a preparare un piatto di noodles istantanei poiché la moglie non gli ha cucinato la cena – sebbene in un primo momento si possa pensare che stia controllando se il figlio si nutra di notte scendendo in cucina – che questo sembra diventare consapevole della gravità della situazione, e cioè nel momento in cui i suoi comfort vengono a mancare.

Il motivo dell’ombra è l’espediente che serve a mantenere intatto il nucleo drammatico, l’ombra di Hiroshi si sostituisce progressivamente al corpo. In una delle prime scene del film il regista decide di filmare indirettamente lo scontro tra Hiroshi, fermatosi impassibile e come inebetito nel cammino di rientro da scuola, e suo fratello minore. Ponendo la macchina fissa sul muro di un edificio, Thrush preferisce mostrare le due ombre che si scontrano, per poi ritornare a seguire i loro corpi solo alla fine della lite. Solo veicolo per restare in comunicazione con gli altri membri della famiglia sono i bigliettini lasciati fuori dalla sua stanza; in uno di questi Hiroshi scrive «Vorrei che tutto il mondo sparisse». Se il mondo non può sparire, sono io che sparirò dal mondo. Ombra ineffabile e sfuggente è quella di Hiroshi che appare di notte in cucina per frugare nel frigo, corpo che sfuma lasciando la traccia di una presenza sempre più immateriale, il mucchio di capelli che sua madre ritrova nella vasca da bagno.

Le scale costituiscono un altro leitmotiv presente a più riprese e prefigurano l’isolamento di Hiroshi: questo pare suggerire la purezza geometrica dell’inquadratura in cui Hiroshi, omino in miniatura, sale le scale antincendio di un edificio che si staglia solitario come una fortezza inattaccabile nell’azzurro del cielo. Luogo di transizione tra esterno e interno, la scala, ripresa dal salotto in contre-plongée rappresenta anche il punto di vista da cui la madre osserva silenziosa la segregazione del figlio, ma di notte può anche diventare una sorta di confessionale, dove finalmente il giovane di spalle dà libero sfogo alle proprie paure. Dopo la rottura con il padre, la madre decide di chiedere aiuto, incontrando il personale di una centro specializzato nella cura degli hikikomori. Mantenendo la distanza, con prospettiva critica il regista filma contemporaneamente il dialogo tra la madre e il direttore del centro e i giovani pazienti che, nel silenzio più totale, si tengono occupati facendo le pulizie. Mai nel film è stato dato un nome alla patologia, sarà la persona più competente a darle per la prima volta un nome, servendosi dell’espressione «coloro che decidono di stare dall’altro lato della porta». La testimonianza di una paziente permetterà di saperne un po’ di più su quest’isolamento, caratterizzato da uno stato di infelicità e di insofferenza, e il cui scopo è quello di non pensare a niente.

L’ultima parte del film sembra essere un tentativo di rispondere alla domanda «Come uscire da questa clausura volontaria?», trovando uno stimolo, qualcosa di semplice che dia gioia, d’altronde come dirà il direttore, riuscendo a varcare la soglia che separa il mondo esterno dal territorio di Hiroshi, in cui è terribile non sentire più nulla. Nel buio della stanza qualcosa sta cambiando, uno spiraglio di luce colpisce il letto lasciando in penombra la sagoma di Hiroshi. Si tratta di un’apertura importante, l’inizio di una guarigione che avanzerà poco a poco e che permetterà di riprendere coscienza di sé, del proprio corpo, del proprio volto. Hiroshi lo cerca inizialmente nel dorso di un cd-rom prima di dire addio alla sua ombra, che compare per l’ultima volta sul muro della stanza mentre egli sussurra «Sono sfinito»; anche lo spettatore può riconciliarsi con lui attraverso questo riflesso impreciso fino all’epilogo che ci restituirà il protagonista nella sua interezza.

Se la segregazione volontaria del figlio ha incrinato la relazione fra i genitori – o meglio si è limitata a far emergere un’incompatibilità repressa – implicitamente sono i rapporti familiari che possono aver spinto l’adolescente a rinchiudersi nella sua stanza. Ipotesi che sembra trovare una conferma nella scena finale: Hiroshi si dirige verso la toilette dove l’incontro con la paziente che si era confessata con la mamma sembra riaccendere quella curiosità che lo porterà a sentire di nuovo qualcosa, qualcosa di profondo e all’antitesi del sensazionale, come l’innocuo desiderio di sapere che cosa nasconde il viso di qualcuno che ha conosciuto come lui quell’oscurità impenetrabile. Immobile sulla soglia della stanza di questa, si sofferma lungamente a osservare i disegni appiccicati al muro che rappresentano tre figurine stilizzate che si tengono per mano, quella di mezzo un po’ più piccola rispetto alle altre, forse una famiglia felice. «Che cosa ha sul braccio?.  Dei tatuaggi, delle parole da ricordare assolutamente. Quali parole? Resistenza. Bisogna avere molta resistenza alla mia età. Humour. Non prendere le cose troppo seriamente. Come adesso … Potrei dirmi che sto morendo e invecchiando. Ma la prendo così, non c’è niente da fare».

Una delle caratteristiche del cinema di Thrush consiste nell’avvicinarsi gradualmente al personaggio principale, colto in un determinato ambiente sociale. In Tobira No Muko la macchina, procedendo dall’esterno e per sottrazione, filma a lungo l’aula di una scuola durante una prova a scritta; man mano che la classe si svuota l’attenzione si concentra sull’ultimo alunno, Hiroshi, che sembrerebbe essersi addormentato. Pursuit of Loneliness si apre in un parco, un’inquadratura fissa su un sentiero comincia pian piano a spostarsi tra i frequentatori silenziosi della zona, rispettando sempre una distanza di sicurezza. Uomini soli seduti sulle panchine, qualcuno attraversa distrattamente il campo in bicicletta; poco dopo, sullo stesso piano iniziale compare la silhouette di una donna anziana che porta al guinzaglio due cagnolini: è Cynthia, la protagonista del film. Presentazione chiara ed efficace per introdurre il tema. Anche qui sarà al centro la riflessione sulla solitudine. Una solitudine in bianco e nero che avvicina due città: Los Angeles e Saitama.

Tornano alcune scelte stilistiche, già presenti in Tobira No Muko, come la giustapposizione fra il soggetto e la macchina di uno schermo per marcare ciò che si è definita come «una poetica della distanza». Il corpo di Cynthia viene filmato dalla vetrina di una clinica veterinaria, l’ufficio dove lavorano le segretarie dell’ospedale viene ripreso dalla vetrata del corridoio. Altro spunto già ricorrente nell’altro film è quello dei numeri; in Tobira No Muko Hiroshi conta i passi che separano la sua scuola da casa, cifre che crescono contrapponendosi alle voci di un gruppo di ragazzine, intente a contare le caselle del gioco della Campana. In Pursuit of Loneliness i numeri sono quelli delle stanze dei malati nell’ospedale, quella di Cynthia la 312, quella del signor Bennett la 304. Sono le cifre che compaiono nel dossier dei pazienti, nei referti di decesso e servono a descrivere la relazione professionale che lega i pazienti al personale. Alle ore 5h32 è registrato il decesso di Cynthia. I numeri si sostituiscono alle parole, trasmettendo un senso di vuoto e solitudine; uno dei flashback mostra Cynthia al telefono con un addetto alle televendite, il quale chiede alla donna di comunicarle l’indirizzo, il numero di telefono, il numero della carta di credito e il numero di riferimento dell’anello che intende acquistare.

Attraverso una serie di inquadrature ravvicinate la regia decide di raccontare il quotidiano dell’ospedale e la fragilità della vita, privilegiando la distanza all’intrusione. Una distanza possibile grazie alla cura compositiva che costruisce le immagini come frammenti assestanti: una mano che trema sulla sbarra del letto per dire la difficoltà a restare in equilibrio, un bicchiere in bilico che si scopre un vaso di fiori per dire la rassegnazione, la consapevolezza di essere ormai sul punto di non esistere più. Niente sembra essere lasciato al caso, soprattutto quando si dà un grande valore al dettaglio, come quello delle mani che funge da raccordo tra l’aneddoto di un’infermeria, che racconta di aver perduto un anello importante, e il personaggio principale. Nell’inquadratura successiva due infermiere sfilano gli anelli dalle dita di un cadavere, che si rivela essere quello di Cynthia solo alla fine della scena. Dalla morte alla vita. Dall’interno dell’ospedale, il corpo della donna viene trasportato in un ascensore che evoca la sepoltura, fino all’esterno che coincide con il passato: Cynthia seduta su una panchina è intenta a osservare il volantino di una pubblicità di parrucche, e poco dopo riappare indirettamente, riflessa in uno specchio, mentre si fa tagliare i capelli come la donna nel volantino, appeso sullo specchio del salone.

Gli oggetti, ossessione di Cynthia, affetta dalla sindrome di Diogene, patologia che porta all’accumulo compulsivo, diventano emblematici perché fungono da raccordo visivo contribuendo inoltre a creare una continuità spazio-temporale: è il caso del ventilatore nel drugstore che oltre a trasmettere la sensazione di caldo asfissiante, il bisogno di placare la sete, ci conduce a casa di Cynthia, dove tra la montagna di giornali e oggetti di ogni tipo sparsi a terra, risaltano prima un ventilatore portatile, poi la silhouette di spalle ripresa fino alle caviglie che trascina un altro ventilatore. Come Hiroshi si tratta di un corpo sfuggente, che raramente viene ripreso per intero o frontalmente; e come per l’adolescente di Tobira no Muko, il viso ci è sempre restituito indirettamente, attraverso lo specchio del bagno, dove la donna bagna un asciugamano per alleviare il caldo. Per il ritorno al presente di nuovo un collegamento visivo: la busta di plastica con la scritta «Patient’s belong» si carica di una potenza emblematica considerando il mucchio di oggetti che pullulavano nella villetta della donna. Forse non è nemmeno un caso se Tobira no Moka si chiudeva con lo scenario del corridoio poiché in Pursuit of Loneliness esso sarà il luogo che mette in comunicazione il personale dell’ospedale e i pazienti.

Per quanto la relazione tra medici, infermiere e pazienti sia professionale, esiste tuttavia un tipo di umanità e di affetto che il regista tiene a mostrare con la discrezione e la raffinatezza che lo contraddistinguono. Fin dall’inizio del film la tecnica di radiologia, colei che si accorgerà per prima del decesso di Cynthia, viene svegliata di soprassalto da una telefonata dell’ospedale. Sulla lavagnetta dove gli infermieri segnano la visita quotidiana, l’infermiera che ha visitato il Signor Bennett disegna un sorriso accanto alla firma. Non mancano nemmeno momenti di grande solidarietà tra colleghi: l’uomo che si accinge a trasportare il cadavere di Cynthia nell’ascensore chiede alla collega: «Le dà fastidio prendere l’ascensore con un corpo?». Piccole accortezze che costellano il film fino all’epilogo, il dialogo tra il Signor Bennett, che ha lasciato l’ospedale per trasferirsi in una pensione per anziani, e un’infermiera che cerca di rassicurarlo, confidandogli che anche lei si sente ansiosa quando si trova in un posto nuovo. La macchina inquadra il volto dell’infermiera in un primo piano che occupa tutto il campo, e per la prima volta il sonoro si riallaccia al visivo, perché, quasi per tutto il film, delle conversazioni di infermieri e pazienti erano presenti solo le voci come traccia sonora a inquadrature frammentarie, che descrivevano un luogo – il soffitto, i neon, il corridoio, le pareti delle stanze – e i suoi abitanti sempre colti in un particolare minimo e mai nella loro interezza.