Diceva Cesare Pavese che i miti sono ricordi d’infanzia, frammenti di memoria di cui cogliamo l’importanza solo in età adulta grazie a una rivelazione tardiva. Questo “concepire mitico dell’infanzia” ha poco a che fare con l’epica e più con l’immaginazione affettiva, cioè ha meno bisogno di avventura e di eroi che di artisti e pensatori. Fra The Myth of the American Sleepover e It Follows, David Robert Mitchell ha dimostrato di possedere poco di epico e molto di mitico. Due film caratterizzati da un piccolo respiro narrativo e da una grande sensibilità emotiva, separati da una differenza sostanziale d’approccio. Il primo era il tentativo dichiarato di costruire una parabola sulla malinconia adolescenziale attorno a una serie di pigiama party in una notte di fine estate. Il secondo si pone come una trasfigurazione spaventosa della scoperta giovanile del senso di finitudine, meno letterale rispetto al “mito” tracciato dall’opera precedente, ma comunque ben definita. Se The Myth era una commedia dolceamara, gentile e trasognante, It Follows è un horror puro e inquietante. L’It del titolo è un’entità proteiforme e indefinibile: una maledizione che si trasmette facendo sesso e che ha come unica caratteristica quella di muoversi lentamente ma inesorabilmente verso la prossima vittima designata. Più che a una vera trasmissione per contagio virale (come suggerirebbe il richiamo immediato a una malattia venerea), il suo modo di diffondersi è più simile a un passaggio di testimone. Puoi liberarti dei pedinatori assassini solo passando il male a qualcun’altro e sperando che faccia altrettanto, perché la maledizione non si ferma e, dopo aver ucciso, torna a inseguire il contagiato precedente.

Essere seguiti da qualcosa da cui non riusciamo a scappare è uno degli incubi più ricorrenti e angoscianti che popolano i nostri sogni. Mitchell lavora questo ben noto senso latente di insicurezza e vulnerabilità dandogli uno, o meglio, più corpi e facendone l’unico vero filo conduttore del film. In modo semplice quanto inesorabile, estende la formula classica della suspense e trasforma i momenti più innocui, intimi e rilassanti della vita di un’adolescente in uno stato di angoscia perenne. Un appuntamento romantico, un bagno in piscina, il dormiveglia. Sono le situazioni d’insieme, più dei singoli dettagli, a fare davvero paura. Soprattutto in un film in cui l’unico modo per sopravvivere è posizionarsi uno spazio aperto e aprirsi sempre una via di fuga.

Il racconto non svela molto sulla maledizione, ma si concentra più sugli spazi, sulle circostanze dei luoghi: un parcheggio abbandonato, la casa sul lago, la piscina di una scuola, le villette a schiera dei suburbs del Midwest. La paura passa attraverso la percezione dello spazio fra vittima e assassino e il fatto che questa separazione sia una distanza sempre colmabile. Una tale idea degli spazi richiede una rappresentazione dei luoghi attenta, che It Follows evidenzia fin dall’incipit, con un piano sequenza che gira lentamente in mezzo a un viale della periferia di Detroit seguendo la corsa di una ragazza visibilmente traumatizzata da una presenza invisibile. Una commistione di tranquillità e di tensione e una capacità di costruire suspense a partire dai virtuosismi di ottiche e movimenti di macchina e da una musica minimale (ottima la partitura elettronica di Disasterpiece), capaci di rievocare le sequenze iniziali di Lo squalo e Halloween.

Luogo e movimento non sono solo i due ingranaggi centrali della suspense nel film. Paradossalmente, è come se l’entità maligna possedesse una concezione dello spazio e del tempo molto più concreta e lineare di quella degli altri personaggi, adolescenti che guardano solo vecchi film, leggono Dostoevskij su strani palmari e vivono apparentemente abbandonati a se stessi. It è invece ben definito nello spazio (è fisicamente collocato e si sposta camminando, senza poter attraversare muri o pareti) e vive una missione lineare (uccidere a ritroso l’ultimo contagiato). È una presenza risoluta e implacabile, visibile solo a chi ne ha subito l’effetto ma comunque palpabile, tangibile anche per tutti gli altri. E proprio per questo è anche una meravigliosa rappresentazione della malinconia giovanile. La mancanza di ulteriori dettagli su questa entità ha generato solo maggiori speculazioni fra i sostenitori del film, aprendo a numerose interpretazioni. Molte di queste sono disseminate dal regista stesso, che instilla indizi psicanalitici nelle varie incarnazioni del mostro (padri, madri e altri fantasmi dell’inconscio). Tuttavia, l’unica davvero preferibile è quella che permette di cogliere in filigrana un’ennesima esplorazione del mito americano della perdita dell’innocenza. Come nei migliori lavori di Stephen King, Mitchell riesce a far battere dentro lo schematismo del genere horror la stessa atmosfera sospesa che pervadeva nel suo primo film, capace di cogliere l’ansia per il tempo che scorre e per l’incapacità di poterlo fermare. Un senso di impotenza e di finitudine che il film esplicita con riferimenti diretti alla letteratura alta di Dostoevskij e T.S. Eliot, ma che segue uno stratagemma narrativo caro al genere dai tempi di L’invasione degli ultracorpi.

Con una differenza sostanziale rispetto alla maggior degli horror su epidemie e contagi, It Follows propone però una visione umanista e vede nell’amicizia e nel lavoro di squadra una dei possibili arginamenti all’approssimarsi della morte. Ogni mito, diceva sempre Pavese, vive sempre fuori dal tempo e trasforma in schemi normativi dell’immaginario tutte quelle “prime volte” irriducibili in maniera razionale. Ecco perché un buon horror non ha bisogno di molti dettagli e di motivazioni, ma vive in alcuni, semplici principi affettivi, capaci di diffondersi e propagarsi grazie alla condivisione dell’immaginazione.