Nella seconda metà degli anni ‘60 Pasolini affrontò la questione del destinatario in tutta la sua problematicità: se da un lato infatti, in contrapposizione al “teatro della chiacchiera” (borghese, tradizionale) e “dell’urlo” (antiborghese, sperimentale), elaborava il Manifesto per un nuovo teatro (uscito su “Nuovi Argomenti” nel gennaio-marzo del ’68), in cui veniva teorizzato il “teatro della parola” con il proposito di mettere nuovamente al centro come cuore pulsante e inalienabile la parola stessa, ormai elusa dalla chiacchiera rassicurante e dall’urlo scandalizzante, dall’altro scriveva il saggio sul “cinema di poesia” (1965), elaborando un cinema come “lingua di poesia” in opposizione agli schemi di una tradizione cinematografica formatasi secondo la convenzione di una “lingua della prosa, o almeno di una lingua della prosa narrativa”[1].

Quando nel 1969 Pasolini traspone al cinema Porcile (scritto per il teatro tre anni prima), attua una peculiare sintesi delle due elaborazioni teoriche, intrecciando alla trama principale originaria dell’opera teatrale, ambientata nella Germania del boom economico del 1959, una seconda linea narrativa. La prima vicenda ruota infatti intorno a Julian Klotz (Jean Pierre Léaud), figlio “né ubbidiente né disubbidiente” di un potente industriale tedesco, che si rifiuta sia di aderire alla contestazione giovanile di cui la fidanzata Ida (Anne Wiazemsky) è portavoce, sia di interessarsi all’impero industriale paterno, ma che anzi rivendica la propria “inalienabilità” rifugiandosi in una totale atarassia. L’unico aspetto che gli interessa sono le sue passeggiate verso il porcile, per poter intrattenere rapporti con i maiali, fino a desiderare di farsi divorare da loro. Nella seconda vicenda, ambientata in un Cinquecento arcaico e onirico, un giovane (Pierre Clementi) si aggira nel deserto lavico alle pendici dell’Etna, cibandosi di tutto ciò che trova, per poi uccidere, violentare e divorare anche esseri umani, chiamando a sé un gruppo di seguaci con cui dare sfogo alle proprie pulsioni perverse, gettando le teste delle proprie vittime all’interno di un cratere del vulcano, come per ingraziarsi una divinità pagana. Infine, catturato insieme alla sua brigata di cannibali dai soldati ecclesiastici, verrà legato a dei pali e condannato a essere sbranato da cani selvatici.

L’intrecciarsi di queste due linee narrative apparentemente slegate si rifà alla duplicità di livelli spiegata da Pasolini nel suo intervento sul “cinema di poesia”, ovvero la compresenza di un livello narrativo/razionale e di uno inconscio/mitico: se la vicenda di Julian si può configurare come una parodizzazione della satira antiborghese, in cui i diversi  dialoghi dei personaggi sembrano giochi di recitazione brechtiana con espliciti riferimenti alla nouvelle vague (basti pensare alla scelta del casting degli attori feticcio di Truffaut e Gordard, nonché alla magione di Godesberg che sembra fare il verso alla Marienbad di Resnais), la vicenda del cannibale è posta in una dimensione al di fuori dalla realtà, in cui la parola risulta abiurata (non sarebbe illegittima l’interpretazione secondo cui sia Julian stesso a sognare l’intera vicenda mentre è immobile nel suo proprio letto, in stato comatoso).  Una dimensione primitiva in cui non c’è alcuna morale o ragione, dove a regnare sovrano è il vuoto ancestrale di cui lo stesso deserto lavico è allegoria.

In questo senso l’esempio del cannibale si rovescia in quello di Julian divorato nel porcile. A monte vi è il tentativo di affrontare la questione della crisi di un modello razionalista fondativo di ogni ideologia di potere che non può accettare il crearsi e il dilagare di una nuova forma di coscienza che rifiuti il dispositivo di potere, e che proprio per questo viene fagocitata. Il signor Herr Klotz e Herdhitze, un tempo compagni ed ora concorrenti, ma entrambi accomunati nella loro “abiezione di maiali”, ovvero nell’avere “un ventre capace di contenere un’intera classe sociale”, rinunciano a ricattarsi a vicenda per poter fondere le proprie industrie in virtù della loro mancanza di coscienza critica, facendo subentrare discorsi sui maiali a discorsi sugli ebrei (il ricatto di Herdhitze ai danni di Klotz, ovvero la divulgazione della passione segreta di Julian per i maiali, sarebbe più potente di quello di Klotz ai danni di Herdhitze, che intendeva rovinarlo utilizzando i crimini nazisti perpetrati da quest’ultimo), una complicità che mette in luce il meccanismo cannibalizzante della società stessa: “Germania, quanta capacità di digerire…”, “Merda”, “E quanta capacità di defecare… sopra il cuore dei nostri figli puritani”.

In questo gioco di rovesciamenti, di divorare e venir divorati, Julian e il cannibale contrappongono ad un potere mostruoso e totalizzante nient’altro che l’oscenità di un amore tanto disperato quanto sincero, che Julian descriverà a Ida come la deformazione estatica di una “grazia” che è anche una “peste”, come “una vocazione al martirio”; e d’altra parte, le uniche parole che Clementi ripeterà dopo aver rifiutato di baciare il crocifisso saranno: “Ho ucciso mio padre, mangiato carne umana, e tremo di gioia.” Ma non si tratta di una vera contrapposizione. La vacuità del loro sacrificio è sancita già dal prologo delle lapidi sulla disubbidienza, poiché essi con il loro gesto di ribellione non hanno fatto altro che legittimare il potere dei propri padri, che hanno potuto così schiacciarli e reintegrarli all’interno del sistema di rigenerazione e accrescimento dello stesso potere repressivo, condannando al silenzio e alle lacrime chiunque sia stato testimone della loro scomparsa.


[1] Empirismo eretico, Garzanti, Gli Elefanti, Milano 1972, 1991, 1995