I promessi sposi (2007) esplora angusti uffici comunali, aule clericali. Qui mediatori di Dio o dello Stato istruiscono gli uomini nelle procedure matrimoniali. Un funzionario dà le spalle alla camera, appoggia i gomiti su una scrivania d’un grigio chiaro, in primo piano appare una pinzatrice rossa. Illustra il regolamento a due fidanzati asiatici: «L’orario del matrimonio è di 15:20, arrivare quindici minuti prima con carta di identità. L’importante sono i due testimoni, si chiamano testimoni in Italia. Che capiscano da soli italiano. Se non capire italiano, non fare matrimonio». La lingua ridotta all’osso risuona come essenziale codice burocratico.

«Voi siete parenti tra di voi? Avete figli nati da un’altra relazione? Siete lavoratori dipendenti? Siete diplomati. Licenza media. Dopo il matrimonio, voi, cambierete la vostra residenza?». I funzionari devono attribuire un nome ai fidanzati, stabilirne l’identità e lo status, definire il loro passato. Durante il rito nuziale ogni soggetto dovrà interagire con gli altri secondo un meccanismo formalizzato. Vige una grammatica della vita amministrata.

In un ufficio romano un uomo fa la lezione a una donna anziana. «Dovete fare le pubblicazioni. Le pubblicazioni si fanno dove siete residenti». La donna seria e accigliata pronuncia frasi con voce lievemente strozzata, incomprensibili. «Io non vi capisco, signora. Se la residenza è a Laurentino dovete andare lì a fare le pubblicazioni». Lei è una sordomuta che tartaglia in dialetto; il funzionario batte nervoso i polpastrelli sulla scrivania. La grammatica delle procedure è disarticolata dal ciangottio di significanti in libera uscita.

Un prete illustra i dogmi sul matrimonio e sulla famiglia a una classe di promessi sposi. Qui la grammatica non è procedura di Stato, ma Verbo di Dio. La macchina da presa si sofferma sulle mani del prete: oscillano, si tendono, i palmi s’appoggiano e si sfregano l’un con l’altro, dita si stringono a pugno. I gesti del corpo si scatenano fuori dalla grammatica, sono inconsapevoli emissioni di vita che scardinano il senso sacrale delle parole. Una vitalità si diffonde incurante del dogma impartito come verità dall’alto. Allora il corpo del prete è un soggetto comico in una profusione di movenze incontrollate e numeri da saltimbanco.

I promessi sposi è un film sulla vita che deborda dai significati morali e dalle costrizioni comportamentali. Questa è l’origine della comicità come emancipazione dal “devi fare così e così”. Due sorelle in un ufficio palermitano si scatenano in una performance attoriale dai tempi perfetti: una danza esilarante di eloqui sincronizzati, movimenti precisi, espressioni da maschere commedianti. La liberazione comica è spettacolo spontaneo, testimonianza di una vita incosciente che resiste da secoli nonostante i regolamenti.

Grandi speranze (2009) narra le imprese di giovani uomini d’affari. In una sala dalle sedie blu e cattedre di legno lucido si tiene un incontro di imprenditori in formazione. Una giornalista di Mediaset impartisce una lezione sul comportamento da tenere durante le discussioni pubbliche. Indica un partecipante: «Prima cosa, via le mani incrociate così. La postura delle mani è importante. Uno non sa mai dove mettere le mani. Le metta così sciolte, oppure una sopra l’altra». L’uomo sorride imbarazzato, si sposta impacciato sulla sedia. «Lei deve tenere le mani in modo che l’immagine sia convincente, autorevole, non troppo ingessata. Chiuda le gambe. Ecco, le chiuda meglio; un uomo con le gambe aperte così non va bene. Metta la mano dall’altra parte, stringa le gambe, stia più dritto». La competizione economica richiede il disciplinamento dei gesti: è vincente il miglior controllore di se stesso.

Sostiene il responsabile della formazione: «Se uno vuole realizzarsi nella vita – che diventi una rock star o un imprenditore – deve seguire la sua vocazione». Le regole di autocontrollo non impongono un’ideale di civiltà o un equilibrio razionale, ma mirano a perseguire una «vocazione», o disposizione spontanea. L’uomo imprenditoriale si disciplina per inverare un’individuale, presunta natura.

Un imprenditore toscano assiste con trasporto a una conferenza di Federica Guidi, a quel tempo presidente dei giovani industriali. La donna afferma con voce squillante: «Siamo giovani imprenditori. Il dato anagrafico implica tante cose, non ultima una vocazione alla speranza». E l’aspirante uomo d’affari raggiunge la Cina per diventare il re dell’acqua frizzante. Un giorno decide di visitare una sorgente in Tibet e proclama dinanzi a se stesso: «Shangai, 11 ottobre 2008. Cinque e quaranta della mattina, il sole sorge sul grande giorno. È il giorno della speranza, è il giorno del viaggio alla ricerca della sorgente. È il giorno che potrebbe dare un motivo, una ragione, una risoluzione a tutti gli anni di lavoro in Cina». L’occhio obliquo di Grandi speranze trasforma il sogno d’una vocazione in illusione.

Gli imprenditori sembrano osservarsi da fuori, in terza persona; si forzano ad una costante percezione di sé. Forse cercano i segni di una predestinazione. Questa sorveglianza impastoia i loro corpi in movenze artificiose: non sono personaggi comici, ma patetici. Lo spettatore ride perché un’ironia caustica vibra nel divario fra le piccole speranze individuali e il mondo sterminato. L’imprenditore siede nel suo ufficio cinese con i piedi appoggiati alla scrivania – «da vero boss-style» – ma intorno la stanza è vasta, senza mobili, e silenziosa.

Il castello (2011) scruta le tecniche amministrative di uno spazio speciale: l’aeroporto. I controlli antidroga, le domande di dogana, la violenza sui corpi e le perquisizioni imbrigliano le esistenze dei passanti. Qui la vita pare sussistere in stato comatoso, o imbalsamato. Si vedono controllori estrarre dalle scatole pelli conciate di coyote.

Alcuni funzionari sparano in aria fra i prati verdi e i nastri d’asfalto delle piste d’atterraggio: le esplosioni devono scacciare gli uccelli dallo spazio aereo. La tecnica di pulizia del cielo limita la vita naturale che aleggia spontanea. Eppure una mosca si poggia sull’obbiettivo, e passeggia.

Un istruttore spiega agli allievi della sicurezza come immobilizzare un uomo: «Si ammanetta in ginocchio, così mantieni una posizione di superiorità». «La vostra presenza serve alla repressione del reato. Ma il vostro vero ruolo è quello di dissuadere chi vuole attentare al trasporto aereo». Gli apprendisti della repressione sono ritti ad ascoltare le istruzioni. Ecco che uno di loro sente un prurito all’ascella, si gratta e si gratta ancora. La mosca, il prurito: ne Il castello la natura emerge come mossa istintuale, irrefrenabile e necessaria.

In un laboratorio uomini in camice esaminano le merci in transito. Le scatole disposte in fila ospitano aragoste. Ecco una chela si protende in su, l’arto animale si muove nonostante gli elastici che legano. La libertà è una rottura delle costrizioni imposte dalla tecnica di controllo. L’aragosta deve compiere il suo gesto – una movenza naturale – e solo la contingenza degli apparati di amministrazione può ostacolare la libera manifestazione della vita. Questa immagine è straordinaria perché dimostra che i meccanismi regolamentari non sono necessari; necessaria è la movenza imprevista che persiste come breve rottura di schemi imposti.

Una donna, Milietta, bloccata in aeroporto, cucina il pollo nel bagno, si fa la tinta, affetta la pancetta. Anche i suoi gesti non sono resistenze, ma persistenze: brevi emersioni di una vita che sarebbe piena e completa qualora non s’imponessero le regole del castello. La vita non straborda come negli uffici comunali perché qui in aeroporto regna intensissima una tecnologia positiva, madre di morte. Per questo Il castello non è più commedia o satira, ma melodramma. La donna adagia il rossetto sulle labbra e intona: «C’era una volta un bianco castello fatato / un grande mago l’aveva stregato per noi».

Ne Il castello l’uomo aveva perso d’importanza: era un animale fra i crostacei e gli uccelli migratori. Materia oscura (2013) s’inoltra in un mondo dove gli umani e la loro lingua svaniscono in rarefazione. In un paesaggio mediterraneo secco e pietroso appaiono recinzioni di una base militare, greggi ovini accompagnati da pastori taciturni, silhouette di astronauti che vagano in valli erose dal vento. Scorie e rifiuti sono dispersi in giro: materassi, ferraglie, mezzi militari. Immagini mostrano esplosioni fra pietre e arbusti: forse esercitazioni con armi non convenzionali. In un laboratorio una voce registrata afferma che «il torio è stato trovato nel miele, nel formaggio, in molti campioni di funghi, nelle ossa dei pastori che avevano l’accesso all’interno del poligono». Materia oscura è una cronaca dalla terra guasta.

Rari gesti spontanei – come la cagata imprevista di una mucca – emergono ancora all’esistenza, ma un senso d’inquietudine grava sulla natura delle cose. Un vitellino è nato malformato e non riesce a bere dalle mammelle della madre, a fatica l’allevatore stilla nella sua gola il latte appena munto. Qui l’impedimento alla vita non è solo coercizione esterna che soffoca, ma malattia interiore che corrompe. Materia oscura mostra la natura in via di decadimento: gli istinti di mosche e aragoste – gesti liberi e necessari – s’appressano alla sparizione nel deserto dove esplodono radioattive tecnologie di morte. Così il vitello incapace di nutrirsi deperisce e si spegne: il film ha la forma della tragedia, è racconto disperato.

A Candoglia, in Val d’Ossola, si trova un’antica cava di marmo dove da secoli si estrae la roccia usata per fabbricare il Duomo di Milano. Sotto il monte vive un olmo del Trecento: fu piantato al tempo in cui iniziò la costruzione della cattedrale. Per più di seicento anni l’albero si è sviluppato, si è allungato, ha proteso al sole le sue membra, ha sostituito le cellule morte con nuovi virgulti. Anche il Duomo, nello stesso periodo, è cresciuto, si è innalzato e ogni anno rinnova le sue parti consunte. Da L’infinita fabbrica del Duomo (2015) sboccia l’analogia fra architettura e formazioni arboree: la cattedrale è viva come un albero. La macchina da presa è un occhio che trasforma la storia in natura. Già la tradizione gotica – con le decorazioni, i colonnati, le arcate – aveva modellato gli interni ispirandosi alle forme vegetali: la navata emula il sentiero che s’addentra nella foresta.

Il film rivela un segreto sorprendente: un fabbricato – seppur figlio della tecnica – è un corpo vivente e cangiante. La morte è un’affezione degli individui storici, ma l’organismo pluricellulare si perpetua immortale stagione dopo stagione. Le statue si decompongono sui pinnacoli del Duomo e sono sostituite con candide figure forgiate a nuovo. I morti di marmo – angeli, creature, santi smangiati dallo smog – sono condotti oltre Acheronte. Così anche noi, individui singolari sul far del tramonto, saremo trasportati via appesi a una carrucola e poggiati in un cortile a riposare sotto fronde fruscianti.

La disperazione di Materia oscura s’apriva sul vuoto informe. Come ritrovare l’espressione dopo la tragedia? Come ritornare al cinema senza smarrirsi nel buio silenzioso? La possibilità di un’immagine scaturisce da un diverso punto di vista: lo sguardo levita in cielo, scruta dall’alto oltre il tempo degli individui e delle istituzioni. Così gli uomini appaiono come cellule transitorie senza identità, formiche operose nel ventre della cattedrale-albero. Non vediamo il gesto singolo, ma il comporsi di libere movenze, e innumerevoli, in un organismo complesso.

Alla fine de L’infinita fabbrica del Duomo una visione celeste abbraccia la cattedrale. Laggiù l’edificio appare come parte del corpo pulsante della metropoli. Lo sguardo contemplativo dà a vedere una vita che sovrasta la tecnologia e gli apparati di controllo. Scatenamento comico, ironia del disincanto, persistenza fra gli ingranaggi del potere, tragedia della natura offesa, serenità cosmica della vita: sono i cinque capitoli del trattato teologico-politico di D’Anolfi e Parenti.