Il mondo delle piccole officine tessili, dei laboratori artigianali e dei negozietti, dove si lavora in modo continuativo dalle sette del mattino a mezzanotte, in condizioni di precariato estremo senza la minima parvenza di diritti sindacali, tantomeno le vacanze (previste dalla legge solo per le fabbriche e non per le piccole attività artigianali), dove si sfrutta anche la manodopera minorile, dove si fanno carte false, imbrogliando sull’età, per poter essere assunti. È la realtà di una città industriale della Cina orientale, su cui si focalizza lo sguardo di Wang Bing nel suo ultimo lavoro, Bitter Money. Ancora una volta il regista punta i riflettori su quanto di solito rimane nell’oscurità, la parte marginale della società cinese, il mondo degli sfruttati e degli esclusi dalla ricchezza della rampante Cina urbana contemporanea. Un mondo che, pur nella sua spersonalizzazione, conserva ancora una mentalità patriarcale confuciana, come è chiaro dal ritratto della protagonista Ling Ling, rassegnata a un marito che alza frequentemente le mani su di lei. Wang Bing mostra la realtà e l’alienazione dei ritmi lavorativi, con lunghe sequenze, estenuanti, snervanti, in tempo reale, del lavoro alla macchina cucitrice o al confezionamento dei pacchi da imballaggio. Gli operai proseguono nella loro routine anche quando dalle loro finestre vedono un incidente stradale, che commentano senza interrompersi.

Non è solo il riso – nel senso dell’oggetto e del prodotto di un lavoro come per le mondine del film di De Santis – a essere amaro, quanto il denaro stesso, e il capitalismo che lo sottende: si arriva peraltro a paventare anche il sistema di vendite piramidale, quell’aberrazione lavorativa che arriva dagli Usa. Wang Bing segue i personaggi fin dalla loro città d’origine e nel loro lungo viaggio in treno, di oltre due giorni, per arrivare a trovare un posto di lavoro. Li segue e si mescola a loro, nei dormitori dove alloggiano, pieni di letti a castello, in palazzoni che formano un grande agglomerato urbano. Li insegue e li cerca salendo le scale, sui ballatoi con macchina a mano traballante, che tradisce l’oscillazione dei passi dell’operatore. Probabile, conoscendo l’approccio di lavoro abituale del regista, che abbia convissuto con queste persone, che abbia alloggiato negli stessi vani. La sua stessa presenza si palesa in uno specchio, in cui si riflette la telecamera, e in un momento in cui il personaggio che segue esclama: “È ora di dormire, filmerai domani”.

Il regista sa tuttavia mantenersi a debita distanza, come nella lunga scena della lite tra Ling Ling e il marito nel suo negozio, con la m.d.p. che si tiene discreta, fuori dalle vetrine, appoggiata a un manufatto esterno. Il sistema capitalista è reso in Bitter Money come una sequela di numeri e cifre, sciorinate dai personaggi, una litania che abbonda nei loro dialoghi. Le loro età, da ritoccare sui documenti per poter fare carte false ed essere assunti;  i numeri delle carte nei giochi sul treno per ingannare il tempo, le taglie delle magliette che confezionano, il numero giornaliero di stirature, il numero di serie, i quantitativi di produzione, le quote d’affitto, le ore (tantissime) di lavoro giornaliero, la frequenza dei litigi tra coniugi, fino ad arrivare alla voce elettronica che declama l’estratto conto dal cellulare dopo le opzioni numeriche della tastiera. Una megamacchina, un capitalismo amaro, scarnificato fino all’osso nella sua componente numerica che sembra rappresentarne l’ossatura: i numeri intesi come performance o indici delle transazioni economiche che presiedono a tutto. Anche ai rapporti personali, come suggerisce la scena dell’ultimo litigio tra Ling Ling e il marito, in cui la donna esclama: “Se vuoi cacciarmi, devi darmi dei soldi”. Il film si chiude con la scena di un grande packaging, la chiusura sigillata di un enorme sacco sotto la pioggia battente. A suggellare tutta la realtà raccontata dal film.