Siamo nel bel mezzo di una rivoluzione. Una rivoluzione informatica, digitale e tecnologica, che coinvolge molti aspetti della nostra vita, ma che altera soprattutto il mondo delle immagini e della visione. Si parte da qui per il breve ma denso viaggio che Simone Arcagni propone nel suo Visioni Digitali. Video, web e nuove tecnologie (Einaudi, 22 euro, 2016, pp. 187), un libro che vuole essere una panoramica il più completa possibile sulle tendenze contemporanee nel mondo del video, del web e delle nuove tecnologie, come recita appunto il sottotitolo, avendo però come guida il destino degli audiovisivi in questo scenario e il ruolo costante del cinema o quantomeno del postcinema. Il libro è organizzato in quattro capitoli, i cui titoli vale la pena citare per avere un senso del lavoro: Benvenuti nell’infosfera; La galassia postcinema; Postcinema: a proposito di generi, forme e narrazioni; Futuristico o futurologico? L’autore è professore di Cinema, fotografia e televisione all’Università di Palermo, ma scrive anche per giornali e siti divulgativi, e questo doppio cappello viene esaltato nel testo, un libro che è al tempo stesso accademico, riportando le più recenti discussioni dei media studies italiani e anglo-americani (con incursioni ulteriori), ma riesce anche a mettere in risalto le discussioni di cui vivono riviste come Wired, Nova de Il Sole 24 Ore e tante altre.

Vale la pena chiedersi soprattutto cosa resta, nella panoramica di Arcagni, del cinema e dell’esperienza della visione in generale. La risposta è semplice: moltissimo. Rimane per esempio il cinema come cult, quel “grande serbatoio di modi, forme, pratiche, immagini e rimandi” (p. 52) da cui attingere per mash-up, remix, riusi, ri-creazioni di filmati e omaggi tipici del web 2.0. L’evoluzione comporta anche una, l’ennesima, morte dell’autore (o in questo caso forse la moltiplicazione degli autori), visto che “Il cinema diviene affare, prima che dei registi e dei produttori, degli utenti e dei fan e quindi la sua forma più autentica sul web è il suo tradimento, l’omaggio, la parodia, il remake, la ri-costruzione […] la frammentazione” (p. 93), sostiene ancora Arcagni, con forse un po’ troppo entusiasmo per le pratiche dal basso visto quanto registi e produttori rimangano ancora importanti e mantengano una forte agency su tanto cinema. Per Arcagni, e per altri studiosi di questi temi, la nozione di archivio (e/o database) diviene fondamentale: il web è un archivio, gigantesco, di immagini, che siano completamente dal basso, o strutturati come Nasa TV, le lesson plan di Rai Scuola, o l’Archivio Nazionale del Cinema d’Impresa, esperienze di cui l’autore parla. È “un’ecologia narrativa fatta di archivi condivisi” (p. 133) che divengono quindi esperienze ibride (altro termine chiave per Arcagni), che, in un certo senso, ibridano di ritorno anche televisione e cinema: si veda alla voce Peter Greenaway, regista ormai di immagini in movimento, o la sottile linea tra web-series e serie tv, tanto che, dice giustamente Arcagni, forse non è neanche questione interessante domandarsi se House of Cards appartenga all’una o all’altra (p. 97), quanto segnalare che i confini sono ormai sempre più labili. Siamo entrati in una “galassia mediale espansa ed estesa in cui nessun medium occupa il centro”.

Del cinema rimane poi, e questa è uno dei passaggi più interessanti di Visioni Digitali, la sua natura narrativa, di storytelling, che anzi ha invaso più ambiti diventando una “narrazione totale” (p. 117). Un’invasione che non risparmia lo spazio urbano, dove pullulano gli schermi e prendono vita le live experience, come Secret cinema di Londra o esperienze come Pokemon Go, di cui l’autore non scrive perché il gioco è contemporaneo all’uscita del testo, dove naturalmente però si parla di ingress (il videogioco che usa una tecnologia simile), virtual e augmented reality. Forse tra le sopravvivenze più importanti c’è che le immagini, e in particolare i video, sono la principale forma di espressione e comunicazione: è insomma la visione, ancora, al centro della nostra esperienza mediale. È una visione che si è evoluta, ci racconta Arcagni, da spettatore passivo, seduto in una sala buia a vedere un film, a uno attivo, dal 1983 in poi (data simbolo, la nascita del telecomando, la morte del cinema, sempre per l’apocalittico Greenaway), e adesso anche spettatore-partecipatore, che modifica, commenta, interviene, insomma partecipa. Tutto è cambiato, ma qualcosa è rimasto anche com’era, o si è evoluto ma senza alterarsi del tutto: “non si tratta più di cinema eppure porta con sé le tracce del linguaggio cinematografico, dei modi, delle pratiche, delle modalità di fruizione del cinema” (p. 25), scrive chiaramente l’autore. Le visioni, insomma, sono sempre visioni, anche se digitali. Anche se viviamo in un mondo di software, sono “software che prediligono la forma audiovisiva” (p. 120).

Viene naturale accostare questo libro a un altro, importante testo uscito lo scorso anno, La galassia Lumière del teorico del cinema Francesco Casetti (Bompiani, 2015). Se quest’ultimo è una cassetta degli attrezzi da cui attingere gli strumenti e le possibili modalità per affrontare la intemperie mediale in cui siamo immersi, le visioni digitali di Arcagni sono una fotografia della situazione, uno sguardo a volo d’uccello su cosa sta succedendo. Casetti propone una teoria dei media, Arcagni una ricognizione nel presente dei media. Un libro densissimo, il suo, che potrebbe benissimo contenerne quattro o cinque a voler approfondire ogni tendenze, autore, nome, esperienza audiovisiva che l’autore menziona – solo le pagine 143-145, dove l’autore accenna agli artisti (Salgari, Wells, Verne) e studiosi che anticipavano un modo iper e interconnesso, potrebbero diventare un libro a sé. Forse a tratti quasi eccede il volume di nomi e esperienze citate, ma sicuramente il libro presenta un’introduzione al tema di valore assoluto, da cui partire per approfondire poi con ulteriori letture.

Vale la pena concludere notando come, anche in Visioni Digitali, emerga chiaramente, che il cinema, e i film tantomeno, non siano morti, e l’esperienza della visione sia viva e vegeta: bisogna cercarli, trovare nuove parole d’ordine, articolare nuovi modi per descriverli.