Un paio di anni fa, Ken Loach ha annunciato che Jimmy’s Hall sarebbe stato il suo ultimo lavoro. Il regista si sarebbe ritirato perché l’esistenza di un ottantenne mal si confà alle faticose giornate di riprese e ai ritmi estenuanti tipici del set. Ma il pensionamento è durato poco, perché Loach è tornato quasi subito ai suoi straordinari ritmi lavorativi (ben otto lungometraggi dopo i settant’anni) e, facendosi accompagnare alla sceneggiatura dal fedelissimo Paul Laverty, ha realizzato I, Daniel Blake aggiudicandosi la Palma d’Oro a Cannes e bissando così, a dieci anni di distanza, il successo de Il vento che accarezza l’erba.

Le premesse per il classico film militante e di denuncia sociale, tipico del regista, sono tutte presenti. Nella cittadina di Newcastle vive Daniel Blake, un sessantenne vedovo, di professione falegname. L’uomo ha da poco scoperto di avere seri problemi cardiaci, pertanto il medico consiglia un periodo di convalescenza lontano dal lavoro. L’indennità per malattia, però, non arriva e inizia così un tortuoso percorso alla ricerca di sussidi statali, nel gelido mondo della burocrazia fatto di moduli da compilare online, certificati, visite mediche formali, severe sanzioni in caso di negligenza. Daniel incontra così Katie, disoccupata e madre giovanissima di due figli, alle prese con la rigidità della burocrazia – la ragazza perde un assegno mensile per colpa di un ritardo di pochi minuti allo sportello – oltre che con straordinarie difficoltà finanziarie.

A ben vedere, il film risulta diviso in due parti. Nella prima, in cui Daniel è assoluto protagonista, emergono la leggerezza e le arguzie di molti incipit del cinema recente di Loach. Nella seconda invece, protagonista è il rapporto tra Daniel, Katie e i figli, e l’intreccio e il relativo sviluppo si fanno più gravi, a tratti schematici. La prima parte è decisamente la più convincente: è a suo agio l’attore Dave Johns, comico e cabarettista inglese, completamente reinventato da Loach in un ruolo a prima vista non propriamente allineato al suo carisma. Ed è a suo agio lo stesso Loach che, grazie ai tempi dell’interprete, configura abilmente momenti di ottima commedia. Due sequenze da ricordare. La prima è quella esilarante (perlomeno in lingua originale) dei titoli di testa: schermo nero e dialogo, durante una visita medica, tra un’impiegata e Daniel ironico e irritato dall’inutilità delle domande che esulano dal suo vero problema di salute. La seconda è la sequenza della telefonata (fatta da Daniel per comprendere il motivo del rifiuto dell’indennità) e della lunghissima attesa accompagnata dal solito refrain musicale. Il pregio di questa deliziosa sequenza si trova nell’intrecciarsi tra ciò che accade (Daniel al lavoro su alcuni materiali di legno; uno sconosciuto porta il cane a fare i propri bisogni nel giardino di Daniel, il quale si infuria e lo insulta; il postino consegna a Daniel un enorme pacco per il vicino) e la modulazione della musica d’attesa, sia tra inquadrature diverse, sia tra l’interno e l’esterno della casa. È questa la parte più conflittuale e “politica” del film.

Nella seconda metà del lavoro, Loach cade vittima dei suoi soliti limiti. Il soggetto diventa dominante, il tematismo didascalico prende il sopravvento a discapito della costruzione cinematografica e quindi emozionale. Non conta più il come lo si dice, ma diventa fondamentale il cosa. Svuotando la pregnanza dei protagonisti e l’umanità delle vicende il risultato è, come già in altri casi, il manicheismo. La figura eccessiva e poco empatica della giovane madre – senza lavoro, senza famiglia, senza sogni, messa incinta e abbandonata per ben due volte da altrettanti compagni diversi – diventa una macchietta. L’insistenza con cui Loach calca la mano sulla rappresentazione della povertà e della relativa disperazione, fanno sì che della stessa povertà non si formi un’immagine emozionale, ma solamente una fredda stilizzazione. Diventa quindi abbastanza facile percorrere una strada già chiara nelle sue premesse tematiche: la ragazza che entra nel supermercato prelude al furto, l’addetto alla sicurezza che si offre di aiutarla prelude a qualcosa di losco.

Il cinema del combattente Loach – perlomeno quello degli ultimi vent’anni – è tra le cinematografie più allineate e meno libere che si possano conoscere. Declinare la lotta – in ottica cinematografica s’intende –, sempre e solamente per puri contenuti, scindendoli dalle forme che li costituiscono, significa fare per bene le cose a favore di chi quella lotta non la accetta, perlomeno fino in fondo. Al cinema non si può solo vedere, qualcosa deve anche accadere, e la rappresentazione non può prescindere da quell’obiettivo. Il cinema di Loach invece è ormai puro manierismo, cinematografia vuota per indignarsi una domenica pomeriggio al cinema.