Nel cinquantesimo anniversario della rassegna organizzata dall’Unione culturale di Torino che nel maggio 1967 portò per la prima volta nel nostro paese un’ampia selezione dei film del New American Cinema presentati da Jonas Mekas, e in buona parte riproposta nell’aprile 2017 da Fondazione Prada Milano, il 22 maggio scorso il gruppo cinema dell’Unione culturale oggi intitolata a Franco Antonicelli e il ricercatore indipendente Fabio Scandura hanno riunito nella sala dell’associazione sita allora come oggi sotto Palazzo Carignano tutti i filmmaker, gli artisti e i testimoni italiani di quella rassegna che è stato possibile ricontattare. La serata intitolata We love eyes screen è una delle tappe di un lavoro di ricerca sulle memorie di quell’epoca che cerca di porre rimedio alla progressiva scomparsa e ai ricordi discordanti dei protagonisti oltre che alla scarsità e alla difficoltosa reperibilità fisica dei loro primi film. (Claudio Panella e Silvia Nugara)


Lo sperimentale anni Sessanta a Torino

Il titolo stesso di questo testo andrebbe ulteriormente circostanziato, a partire dall’inflazionato utilizzo del termine sperimentale, passando attraverso una corretta identificazione ‘geografica’ dell’essere torinese laddove alcuni protagonisti di questo cinema operarono nel capoluogo piemontese ma ebbero natali e percorsi di vita altrove, sino alla messa in discussione sull’utilizzo più o meno opportuno dello stesso termine cinema in riferimento alle pellicole girate all’epoca, e solo in parte ancora esistenti.

L’ancoraggio principale di questa ricerca appare comunque essere quello di uno spazio-tempo, la Torino di metà anni Sessanta, e di un luogo particolare al suo interno, gli infernotti di Palazzo Carignano, sede dell’Unione culturale. Naturalmente, vi sarebbero altre esperienze da ricordare, come quella del C.U.C. (Centro Universitario Cinematografico), punto di riferimento essenziale per lo sviluppo della cultura cinematografica cittadina non solo in ambito accademico, che organizzava incontri, dibattiti, pubblicava la rivista “Centrofilm” (1959-1966) e gestiva una coraggiosa programmazione presso i fumosi locali del Collegio San Giuseppe di via Andrea Doria 18. Dal gruppo di lavoro del C.U.C. con la supervisione di Goffredo Fofi nacque proprio nel 1967 la rivista di cinema “Ombre rosse” che si legherà da subito culturalmente e politicamente alle vicende cittadine e nazionali del Movimento Studentesco, proseguendo le sue pubblicazioni più a lungo di altre riviste come “cinemasì”, cui collaborarono Mario Ferrero, Luciano Mantelli, Pier Paolo Masoni, Dario Serra, Rosita Siccardi Boetti, Gianni Borgna e da cui alla fine dell’anno nasce “Ombre Elettriche”.

Eppure, quando alla metà degli anni Sessanta, l’Unione Culturale si riaffaccia sulla scena torinese dopo qualche anno di silenzio, il suo ruolo appare subito determinante nel raccogliere le varie energie creative presenti in città. L’associazione era stata creata nel giugno 1945 da un gruppo di intellettuali e artisti antifascisti proprio con lo scopo di diffondere in città una cultura insieme popolare e di ricerca promuovendo dibattiti, seminari, mostre, concerti, appuntamenti teatrali e proiezioni. La rinata Unione si impegna a mandare in frantumi quella che il suo presidente Franco Antonicelli definì, nella presentazione della stagione 1966-1967 pubblicata su “l’Unità” del 21 ottobre, la «pigra tranquillità» torinese e catalizza con il suo operato forme e contenuti di un nuovo modo di intendere e fare cultura. Scrive Antonicelli in quel programma: «Una società culturale, oggi, in qualunque luogo, ma specialmente in una grande città come la nostra, e sotto alcuni aspetti lanciata molto in avanti, non poteva avere una attività quieta, conformista e aristocraticamente appartata. Troppo ancora è indietro la cultura rispetto alla tecnica, troppo indietro rispetto ai problemi dell’organizzazione sociale, dei bisogni nuovi dell’uomo, indietrissimo di fronte agli interessi di chi non vuole farla avanzare».

Dopo la riapertura che il 5 maggio 1966 vede il Living Theatre portare in scena Mysteries and smaller pieces, le attività dell’Unione Culturale suscitano l’entusiasmo dei giovani dell’epoca, al punto che essa diventa riferimento e ritrovo dell’avanguardia culturale nazionale e internazionale ma anche luogo quotidiano di aggregazione cittadina e di confronto reciproco. Nel maggio del 1967, quest’attenzione verso l’avanguardia porta l’associazione ed Edoardo Fadini – al tempo critico teatrale de “l’Unità”, vicepresidente dell’Unione Culturale e responsabile della sezione teatro – a organizzare la prima completa rassegna italiana del New American Cinema Group (New American Cinema Group Exposition) con la collaborazione del Museo Nazionale del Cinema e del Gruppo Piemontese Giornalisti Cinematografici.

All’origine dell’ideazione della dieci giorni del N.A.C.G. ci fu l’incontro tra Fadini e Jerome Hill, avvenuto nell’estate 1966 nel castello che quest’ultimo possedeva nel Sud della Francia, a Cassis. Fadini, raggiunta l’abitazione del benestante cineasta americano per incontrare l’amico Julian Beck “esiliato” dall’America con la sua compagnia del Living Theatre, conobbe in quell’occasione Jonas Mekas e il lavoro dei film-maker indipendenti d’oltreoceano. Dopo un lungo lavoro organizzativo, nel maggio 1967, ricorda Fadini, «Mekas arrivò a Torino in aereo con le pizze sotto il braccio, venne Diego Novelli a prenderci. Alla dogana Jonas aprì le valigie, piene di film, e disse: “Qui c’è il nostro cinema, sono venuto in Italia a farmi arrestare”. Un doganiere rise e gli chiese perché diceva così e lui rispose: “Io in America sono uno di quelli che non può andare dal Mississippi alla Florida… siamo tutti schedati”» (Edoardo Fadini, Intervista inedita, Torino 1 agosto 2008). Altri testimoni ricordano di come per molti dei film, bloccati alla dogana in attesa di un visto, fu necessario l’intervento dell’Avvocato Agnelli (di cui Antonicelli era stato precettore).

Il programma ufficiale della rassegna si tiene nei locali della Galleria d’Arte Moderna di Torino dal 13 al 22 maggio 1967, con proiezioni dalle ore 15 alle ore 24. Il nuovo cinema sotterraneo americano, testimone di una contestazione globale che non contempla esclusivamente la dimensione artistico-cinematografica, si fa portavoce di una vivace critica culturale e di sistema. Torino è letteralmente invasa da più di sessanta pellicole e da una dieci giorni di proiezioni affollatissime dalle prime ore del pomeriggio fino a notte fonda. Al termine di ogni proiezione Jonas Mekas, principale “agitatore” del gruppo, Jerome Hill e Taylor Mead – che come ricorda Fadini rispondeva alle domande sputando sugli spettatori – si confrontano instancabilmente con il pubblico diviso fra scetticismo e “ubriacatura” entusiasta. Una polarità che si protrae, anche fra gli addetti ai lavori, fino alla tavola rotonda di chiusura della rassegna – rinviata rispetto a quanto ipotizzato dal programma e tenutasi nei locali dell’Unione Culturale il 23 maggio – alla quale prendono parte, oltre ai film-maker americani e numerosi cineasti nostrani, Fernanda Pivano, Guido Aristarco, Gianni Rondolino.

Al di là delle differenti posizioni critiche ed editoriali la maratona dell’underground americano richiamò l’attenzione di buona parte della carta stampata che seguì punto per punto e con grande interesse l’evento. Proprio in queste preziose testimonianze dell’accadere quotidiano si trova conferma ai ricordi confusi di quei film-maker torinesi che rammentavano di aver proiettato, in quell’occasione, alcuni loro lavori insieme ai “mostri sacri” americani. Nino Ferrero, critico de “l’Unità” attivamente coinvolto nelle iniziative dell’Unione Culturale e collaboratore della rivista “Filmcritica”, documenta che «la serata di domenica [21 maggio] si è chiusa con la proiezione, richiesta dallo stesso Mekas, di alcuni film italiani, firmati da giovani autori che l’ispiratore del N.A.C. riconosce quali possibili alfieri di un auspicabile “nuovo cinema italiano”. Sono stati presentati: Situazione di Renato Ferraro e Franco Barberi; Uno strano racconto di Gabriele Oriani e Beppe Devoti; Work in progress di Paolo Menzio e Antonio (Tonino) De Bernardi e il documentario What’s happening? (Cosa sta succedendo?) di Antonello Branca e Raffaele De Luca, girato a New York nel giugno del ’66».

Ferraro, Barberi, Oriani, Menzio e De Bernardi sono solo alcuni di quei film-maker piemontesi che ci hanno confermato come la rassegna del nuovo cinema americano fu uno shock collettivo fondamentale, uno stimolo ulteriore, per alcuni, a procedere con le sperimentazioni effettuate in passato e, per altri, una vera e propria iniziazione a nuove modalità e sensibilità espressive nei confronti del mezzo cinematografico; fu soprattutto l’occasione di vedere finalmente quella foresta di immagini fino ad allora fantasticate ed evocate solamente da qualche sporadica pubblicazione. La centralità della dimensione iniziatica della visione, intesa quindi non esclusivamente come dato fisico dell’occhio, è ribadita dall’illuminante testo di presentazione che Mekas stesso scrisse per la rassegna: «La sensibilità dell’artista, che aveva trovato espressione solo nella poesia scritta o nella pittura, ha trovato ora – almeno in America – uno sbocco anche nel cinema attraverso questo nuovo vocabolario cinematografico e nuove tecniche. […] Il pubblico deve imparare ormai a rispondere con la sua propria sensibilità alla sensibilità di questo cinema. Il pubblico deve fisicamente cambiare il proprio occhio per imparare a VEDERE, ad apprezzare realmente questo cinema. Coloro che assistono a questo tipo di films per la prima volta dovrebbero considerare questa “exposition” come un “seminario dello sguardo”» (Jonas Mekas [senza titolo], in New American Cinema Group Exposition. Note sui films: parte prima, Archivio Unione Culturale, maggio 1967).

La rassegna intercetta esigenze diffuse, e spesso confuse, di una popolazione giovanile composta non solo da studenti e giovani intellettuali. Paolo Bertetto, che al tempo si occupava di critica letteraria e cinematografica e che seguì da vicino la sperimentazione cinematografica torinese, chiarisce come «la manifestazione si inseriva all’interno di un’attenzione generale nei confronti dell’avanguardia – cioè di una scrittura artistica nei vari campi dell’arte che rifiutava codici, modelli, paradigmi tradizionali – e dei modelli di vita alternativi diffusi negli anni Sessanta. La rassegna diventa una sorta di coagulo di tutti questi interessi anche perché il N.A.C., come l’altra esperienza importante del Living Theatre, rappresentavano una sintesi che prospettava non soltanto un modo diverso di realizzare i testi creativi, ma un modo diverso di sviluppare l’immaginario e un modo diverso di vivere» (Paolo Bertetto, Intervista inedita, Roma 22 giugno 2009).

L’inaspettata disponibilità “profetica” di Jonas Mekas nell’accogliere e sollecitare la proiezione di alcune pellicole cittadine all’interno della rassegna, in vista di un auspicabile “nuovo cinema italiano”, è la chiara espressione di un senso di vicinanza e di stimolazione reciproca nei confronti di realtà sconosciute e geograficamente lontane. «Questi nostri films rivelano che cos’è la nuova generazione americana. E poiché questa nuova generazione è parte della nuova generazione del mondo, questo cinema, nella sua essenza, in qualche modo esprime anche TE, anche se può non essere chiaro a prima vista come e quale parte di te esso esprime» (Jonas Mekas [senza titolo], in New American Cinema Group Exposition, cit.).

Da una lettera di Fadini all’amico Jerome Hill, datata 20 settembre 1967, emerge come questa rassegna del N.A.C., iniziando il suo viaggio a Torino per poi proseguire in forma ridotta al Festival di Pesaro nel giugno del ’67, quindi a Roma, Napoli e in numerose altre città italiane, fu uno degli elementi catalizzanti che permise il coagularsi delle diverse esperienze sperimentali e indipendenti nostrane nella cosiddetta Cooperativa Cinema Indipendente. La C.C.I. – che vide la sua fase aurorale a Napoli nel maggio del 1967 come Cooperativa di produzione e lavoro Cinema Indipendente, dove una decina di intellettuali e tecnici di varie discipline condividevano l’esperienza cinematografica come momento di operazioni interdisciplinari – si costituisce nella sua forma definitiva proprio fra l’estate e l’autunno del 1967. Dall’incontro di film-maker di varie città italiane, e di modi e mondi espressivi diversi, si concretizza un nucleo cooperativo e «operativo, agente economicamente e ideologicamente all’esterno del sistema, e contemporaneamente […] in grado di contestare, in ogni modo, certe abitudini di consumo» (Introduzione al primo catalogo della C.C.I., datato presumibilmente 1967).

La “lezione” d’indipendenza economica e creativa fornita dalla Film-Makers’ Cooperative aiutò a unificare le isolate iniziative che «sulla base delle esperienze del New American Cinema, avvertivano l’opportunità della costituzione di organismi analoghi, anche se con impostazioni diverse, ed erano già sul punto di realizzarli. Ma il risultato di tutte le discussioni, iniziate a Pesaro e continuate poi in diversi incontri avuti fra Roma Torino e Napoli, fu quello che portò alla decisione di convogliare tutti gli entusiasmi e le forze comuni in un unico organismo […]. Le prospettive immediate sono quelle di distribuire i films dei soci dovunque esista una sala attrezzata o attrezzabile con un proiettore 8 o 16mm., siano esse cineclubs, circoli del cinema, gallerie d’arte, musei, circoli universitari e culturali in genere» (Introduzione al primo catalogo della C.C.I., cit.).

Facendo appello a un’espressione a tratti “colorita”, ma schietta e priva di equivoci, Tonino De Bernardi in un suo scritto recente riferito a quel periodo ribadisce con forza: «Noi facevamo il nostro cinema con i mezzi più poveri che allora c’erano, io usavo l’8mm. […] i miei underground sono nati per andare ovunque, in qualsiasi spazio, anche un cesso…» (Tonino De Bernardi, Passato Presente. Eravamo l’underground. Testo integrale inedito, parzialmente pubblicato sulla rivista “EIDOS: cinema, psyche e arti visive”, n. 3, luglio-ottobre 2005)

De Bernardi sottolinea così quanto la necessità di auto-produrre e quindi proiettare in massima libertà i propri film, offerta dall’utilizzo liberatorio dei formati ridotti, fosse un elemento che saldava profondamente l’urgenza espressiva al mezzo utilizzato per esprimerla. Lo stesso regista Tonino, durante un’altra intervista, puntualizza l’importanza strutturale di questa unione imprescindibile: «Facevamo l’underground perché eravamo poveri ma soprattutto perché significava metterti fuori da tutte quelle baggianate del cinema, fuori. […] Non avrei potuto fare quel cinema in un altro modo. Ho sempre pensato che il mezzo non è solo mezzo, è legato alla natura intima di quello che esprimi, non puoi scindere l’uno dall’altro questi due aspetti».

In questo clima di alterità collettiva De Bernardi, Renato Dogliani, Pia Epremian, Mario Ferrero, Luciano Mantelli, Paolo Menzio, Gabriele Oriani ed Alessandro Serna furono i primi film-maker torinesi a far parte della Cooperativa Cinema Indipendente; ma questa, volgendo gli occhi all’alba del contraddittorio cinema sperimentale italiano che fu, è un’altra storia. Un’altra storia che (non) c’è.


Il testo qui pubblicato è tratto da Fabio Scandura, TORINO: OCCHIO ALL’AVANGUARDIA… dell’invisibile cinema sperimentale anni ’60, Tesi di Laurea, Università degli Studi di Torino, Facoltà di Scienze della Formazione, Torino a.a. 2011-2012; editing a cura di Silvia Nugara e Claudio Panella, maggio 2017.

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FILMMAKERS TORINESI, Studio Michelangelo Pistoletto, Torino, febbraio/marzo 1968. Da sinistra: Franco Bodini, Mario Ferrero, Plinio Martelli, Tonino De Bernardi, Pia Epremiam De Silvestris, Renato Dogliani, persona non identificata, Gabriele Oriani, Renato Ferraro (in piedi), Ugo Nespolo, Enrico Allosio, Franco Giachino Nichot e suo figlio, Paolo Menzio, Maria Pioppi, Michelangelo Pistoletto. [Archivio Pistoletto, Biella]