Un film all’insegna di due R in maiuscolo e di due D, altrettanto in maiuscolo. Le R stanno per Rinascimento-Resistenza, le due D per Dualità-Desolazione. Un film dove le inquadrature, come sempre apparentemente semplici, cadono come tagliole: la narrazione rapsodica di Garrel, una cifra stilistica del suo cinema, è qui asciutta, secca: le inquadrature languide e dilatate di Les Amants Réguliers (2005) sono lontane. Il bianco e nero, rievocativo del cinema romantico del muto e di certa Nouvelle Vague, lascia il posto al colore, un colore che pare uscito dalle sperimentazioni pop e concettuali degli anni settanta. E il formato del muto, lascia il posto al cinemascope. Quello dei western (spaghetti?). Garrel torna sempre sui luoghi, geografici e soprattutto tematici, perché il suo è un cinema sulle origini, del cinema e non. Del suo cinema e di quello di tutti gli altri compagnons della storia del mezzo d’espressione. Un perenne ritorno mistico all’infanzia, anzi, a l’Enfant. A l’enfance de l’art, per riprendere un refrain dadaista. Dopo Les Amants, dopo La Frontière de l’Aube (2007), questo è un film di rottura, ma solo apparente. Forse è più giusto dire di contrasto.
 
Un giovane (Louis Garrel) muore in un incidente d’auto. Suicidio per amore o incidente? C’è un’ambiguità. La morte, il suicidio sono leit-motiv ricorrenti nel cinema di Garrel, quanto l’infanzia (nel senso di trasmissione, eredità di una conoscenza), il destino del cinema e la politica senza destino. Qui, d’emblée, c’è la morte. Secondo noi è un suicidio, ma l’ambiguità resta. Poi si torna indietro, a ritroso. Un viaggio tra Francia e Italia, dove le due metà (metropolitane) non sono solo Frédéric (Garrel) e Angèle (Monica Bellucci), non sono solo Elisabeth (Céline Sallette) e Paul (Jerôme Robart), o Frédéric e Paul (il rapporto d’amicizia assoluto che non è lontano dall’amore, fors’anche fisico), ma comprende Parigi e Roma.
 
Il film prende il via da un lutto personale del regista, la morte del suo migliore amico. E Garrel sembra far coincidere la perdita di un essere di importanza capitale con la perdita del paese simbolo dell’Arte nella testa dei francesi (giocando anche con il cliché che essi hanno in testa, e non solo). Diciamolo subito: Un été brulant è un grande film sulla desolazione italiana. Acuto. E preciso quanto il bisturi di un chirurgo. A vedere la prima parte, si potrebbe pensare che sia un film sull’Italia e la Francia, o forse più sulla Francia, e dove l’Italia è più un fondale di luci, suggestioni, voluttuosità. È sicuramente anche questo. In realtà è prima di tutto, da un punto di vista storico-geografico ma anche metaforico, un film sull’Italia. Ovviamente, c’è un ambiguità, ancora una volta: a nostro avviso è un film su un Paese scomparso.

Nella prima parte parigina, non c’è più la rivoluzione, l’insurrezione (l’amico prediletto di Garrel, era per l’insurrezione), ma c’è ancora le geste politique: Frédéric/Garrel si lancia contro quella “merda” di Sarkozy (vanno in scena gli arresti notturni di immigrati a Barbès); nella parte italiana nulla di tutto questo. Non c’è gesto. Soprattutto, non c’è nessuno. Si parla di rivoluzione, della rivoluzione che fu, ma è nella dimensione intima, e sono dovute ai due amici francesi, appunto Frédéric e Paul. Nella parte francese, c’è ancora il cinema “mentre lo si sta facendo”, e la memoria della Resistenza (ci si potrebbe chiedere il perché di una rappresentazione così realistica: forse per rimarcare la necessità concreta della sua memoria, Garrel evita la consueta evocazione onirica della storia, da Le Lit de la Vierge [1968] fino a Les Amants, così caratteristica del suo cinema); nella parte italiana, nel paese che ha sdoganato il fascismo per mezzo di Berlusconi dando il là in Europa dell’Ovest e dell’Est alla fascistizzazione delle democrazie, non c’è memoria, e soprattutto non c’è più cinema.

Si parla di un film fantomatico, che si dovrebbe fare, ma in quel sole accecante non se ne vede l’ombra. Un’inquadratura magnifica, terrificante, ma che si vorrebbe contemplare a lungo, è quella del deambulare di Frédéric tra i giganteschi scenari di Cinecittà. Monumentali come le vestigia delle antiche civiltà. Quest’estate romana arsa e luminosa, in realtà, è quasi uno scenario da Dopobomba. La scelta del cinemascope sembra reggersi su questa incredibile inquadratura, così significante: una delle più belle viste quest’anno al cinema: rappresenta le vestigia del cinema che fu, di un’Italia che fu. Garrel, con una sola inquadratura, con un sol geste di cinema, ci dice questo. Un’immensa desolazione. Si può pensare al Godard, regista totemico per Garrel, de Il disprezzo, film peraltro violentato nell’edizione italiana: anche lì c’è un Paul, soprattutto, c’è un film che non si farà (ma che almeno sembra partire), e c’è l’estate italiana (di Capri), e si muore (in due, ma non l’artista, al contrario del suo film). Si può pensare a Moretti, al di là degli apprezzamenti personali, da La messa è finita fino al vuoto totale di Habemus Papam: tutta la sua cinematografia è la constatazione progressiva dello spappolamento e depauperamento della società e cultura italiana, popolare e non. Raccontata, come qui, nella leggerezza dei colori mediterranei, primaverili ed estivi. Si può pensare ovviamente a Fellini, il cui ultimo cinema, diseguale all’interno delle opere stesse perché segnato da un urgenza angosciata che lo faceva andare velocemente al dunque, è stato il presagio di questa desolazione, da Ginger e Fred fino a La voce della luna, passando per Intervista. Il presagio di un mondo di vestigia, privato di ogni grandezza. Il Disprezzo sarebbe quindi addirittura la pre-figurazione del presagio.

Dunque l’Italia non c’è più. Garrel ce lo dice nell’anno delle celebrazioni dei 150 anni, aggiungendo una frase provocatoria, laddove si dice che l’Italia impigrita non ha compiuto niente di grande dopo il Rinascimento, sgombrando il campo dal dubbio, non errato, che a Berlusconi non venga riservato il medesimo trattamento di Sarkozy solo per un fatto di buona educazione. Dunque, l’Italia forse non è mai esistita: è il Rinascimento “il” momento grandioso italiano, antecedente di quattro secoli l’unificazione. Una provocazione evidente. Garrel si rende benissimo conto che dopo c’è stato qualcos’altro, non foss’altro il cinema italiano del Dopoguerra, il neo-realismo, il tanto amato Pasolini… Ma è vero che la Francia, basti pensare al romanzo, le sue “Grandi Opere” le ha compiute all’interno della cornice dello stato unitario.

Dopo i ruoli di poeta, di paparazzo, dopo i due François de Les Amants e La Frontière de l’Aube, ecco per Louis Garrel il ruolo di pittore, ecco il Frédéric di Un été brulant; dopo la Clotilde Hesme di Les Amants, dopo la Laura Smet di La Frontière, ecco una nuova musa. Monica Bellucci, bellezza italiana di epoca rinascimentale, – una delle prime inquadrature del film ne è l’esempio perfetto – e assieme artisticizzazione, si passi la parola pesante, di un cliché italico di bellezza nell’era della formattazione spesso trash. È anche il pendant di Catherine Deneuve in Le vent de la nuit, uno dei rari film di Garrel con una star del cinema: dunque due icone di cinema, e due bellezze reali nei rispettivi paesi di provenienza. Le vent occupa un posto particolare nella filmografia del regista: ritorno sui luoghi al fine di ritrovare e ritrovarsi, eroe maschile un Daniel Duval sul cui volto si leggono tutte le disillusioni di un’epoca, poiché l’altro grande evento storico fondante del cinema di Garrel, accanto alla Resistenza, è il maggio ’68 (che Garrel, probabilmente unico, ha avuto l’intelligenza di visualizzare come un sogno, e come una notte).

Se Un été brulant è film duale, allora deve anche trovare un suo doppio all’interno della filmografia del suo regista, al di là del fatto che nel suo cinema ogni opera è filiazione dell’altra: e infatti Le vent de la nuit, francesi gli attori (Xavier Beauvois interpreta guarda caso il personaggio di un giovane di nome Paul), è ambientato tra Italia, Francia e Germania. Quella Germania paese maledetto, frutto del nazismo, della Seconda Guerra Mondiale, della vergogna dell’Occupazione. Il personaggio di Duval, Serge, è chiaramente un militante segnato dalla vita, ormai un disincantato sofferente, alla guida di una splendida Porsche rossa. E qui si pensa a Frédéric di Un été brulant, ricco di nascita e desideroso di rivoluzione: Serge da giovane? Il Serge di Le Vent de la nuit si occupa d’arte ed è a Napoli per un esposizione. Qui, la storia d’amore è ancora tra una donna più matura – la Deneuve – e un uomo più giovane privo di risorse… Vi è un incapacità di vivere, una voglia di morire. Un legame forte si tesse, sotterraneamente, tra i due uomini. Ci sono, già allora, le splendide musiche di John Cale.

Anche questo ci pare innanzitutto un film sull’Italia. Garrel è infatti figlio di quella letteratura francese romantica, profondamente amante dell’Italia, che ha il suo paradigma in Stendhal e che vorrebbe un’Italia sempre all’altezza della sua storia. Non quella desolazione in cui s’imbatte Lavant in Le Vent, deambulante nella luce mediterranea tra costruzioni abbandonate, non finite, tra canzonette di musica leggera (se non erriamo, Alan Sorrenti…) in un vuoto immanente non dissimile dal Moretti di La messa è finita, Palombella rossa, Caro diario, Aprile. Plumbea, la parte tedesca si riassume in un cimitero berlinese. Il luogo di conservazione e contemplazione della morte per i vivi. Anche qui secchezza, asciuttezza della regia, del montaggio. 

In realtà Un été brulant è altrettanto figlio di una certa teutonicità, volta a far da contrasto alla leggerezza mediterranea. L’asciuttezza del montaggio è interpretabile in questo modo: abbiamo perso la memoria, ma quello che non vogliamo vedere – la nostra complicità, di Petain e Mussolini, con il regime nazista – è solo nascosto negli interstizi. Tuttavia, in coerenza con  la dualità di cui sopra, lo si può vedere come un messaggio umanistico sull’universalità dell’arte che unisce tutti fraternamente: francesi, tedeschi, italiani. Garrel mistico dell’arte, ancora una volta.

Il lavoro sul colore, è leggibile tanto in chiave Rinascimentale che concettuale, un concettuale anni Sessanta e Settanta: il rosso è un rosso netto, il blu idem, per citarne due tra i più ricorrenti. Il blu nel film è il nostro colore preferito: si staglia fin dalla prima inquadratura con Louis Garrel, fermo davanti all’automobile. Ci sono un’estrema delicatezza e un senso alchemico dell’equilibrio, perché si riesce sempre a non cadere nel pop, soprattutto nel pop ridondante, e a restare nel concettuale. Ma si pensa alle pitture monocromatiche di un Yves Klein – che morì più o meno quando Garrel esordiva – e in particolare al suo celebre blu oltremare e all’idea di un’unitarietà assoluta. Klein, inoltre, era influenzato da concezioni prossime allo Zen, dall’idea di vedere il reale scavalcando la rappresentazione, o i suoi interstizi.

Nel Rinascimento, l’indagine sul reale mise in evidenza che oggetti, persone, paesaggi, mutavano al mutare della luce e delle ombre. L’estrema mutabilità dei colori del film, espressa negli esterni dai costumi dei personaggi e negli interni dalle pareti degli interni, è quasi una rielaborazione, metaforica e concettualizzata, di questo approccio. Per il marrone, il regista dice di aver scelto il rosso Van Dick, pittore fiammingo, che eseguì innumerevoli ritratti a tema religioso e, come tutti i fiamminghi venne profondamente influenzato dal Rinascimento. La Belucci, nel film, è una donna ossessionata dalla religione, l’unica cosa ben presente nell’Italia concettuale di Garrel. Anche qui, pare assieme un riferimento pittorico classico e un riferimento ironico alla questione dell’onnipresenza del religioso e della Chiesa in questo Paese. Ma il Rinascimento italiano – senza pretendere di essere esaustivi sulle connessioni – fu anche sinonimo di un’irripetibile apertura verso l’esterno: i pittori italiani viaggiavano all’estero, scoprivano ed esportavano le loro conoscenze, in uno scambio continuo, tessendo una ragnatela unica dello spirito dell’arte. Già prima di Van Dick, fiamminghi come Jan Van Eyck erano espressione altissima di questi scambi, e a loro volta rilanciarono, ad esempio con la rivoluzione della pittura ad olio in sostituzione della tempera, dovuta proprio a Van Eyck. Non sorprende, quindi, il riferimento a Klein che fu sperimentatore di tecniche e materiali. Il film, insomma, sembra far suo il concetto di sperimentazione continua, formale e tecnica, di cui la tecnica ad olio nel Rinascimento è solo un esempio. L’Italia non “unita” dell’epoca era, insomma, molto più aperta verso l’esterno dell’odierna Italia “unita”, così patologicamente ripiegata su sé stessa. Come si entra, infatti, nell’Italia di Un été brulant? La medesima inquadratura apre e chiude il segmento, una stradina alberata e stretta: un “passaggio”, anonimo, verso un mondo chiuso, una bolla sospesa: piacevole, voluttuosa. Ma vuota.
  
La stessa struttura organizzativa del film pare riflettere al suo interno una composizione della memoria e della fratellanza, oltre al tema della filiazione che attraversa trasversalmente tutta l’opera del cineasta e alla presenza costante della Germania: Willy Kurrant, il direttore della fotografia, è belga, ma il padre Curt Courant, grande direttore della fotografia anche lui, era di origini tedesche (e morto a fine aprile del…’68). Inoltre, Kurrant perse i suoi genitori nel secondo conflitto mondiale, nascosto da uomini della Resistenza durante l’occupazione, crebbe in un orfanotrofio senza genitori. E Garrel lo ha scelto, filiazione di un’altra perdita, in sostituzione di William Lubtchansky, direttore della fotografia di Les Amants e La Frontière, scomparso poco tempo fa: Lubtchansky aveva appreso il suo mestiere proprio con Kurant (oltre a Andréas Winding). E fin dalla primissima inquadratura citata si pensa a certo cinema tedesco degli anni Settanta, ai colori di L’amico americano, grande film sulla morte e l’amicizia, dove figuravano, come interpreti, registi mitici tra cui Jean Eustache, punto di riferimento cardinale di Garrel. E poi, su tutto, incombe l’ombra del nonno Maurice, figura di spicco del teatro, implicatissimo nella Resistenza, scomparso lo scorso quattro giugno.

Pian piano si delinea insomma una sinfonia, una ragnatela, una mega rappresentazione rinascimentale. L’unitarietà di cui dicevamo sopra… Ma tanta forma, come sempre in Garrel, è al servizio dell’uomo.
Rimarranno a lungo nella memoria, numerosi delicati momenti: i litigi, gli abbracci, le gioie, le deambulazioni, le parole d’amore, la speranza di un film, la delusione e il disorientamento, la complicità tenera tra i due amici. Del resto è probabile che un relativo congelamento di pose, qui più che in altri film del regista, sia voluta per far meglio risaltare, nel finale, le parole magnifiche, che vogliono ridar vita ad un nipote (Louis-Frédérick, ovviamente), e la presenza stessa del corpo-uomo di nonno Garrel, davvero un’apparizione. L’apparizione di un ectoplasma. Il fatto che la realtà abbia crudelmente e assieme magnificamente rincorso il film, come a far meglio risaltare la sua significazione, come se un secondo regista o una seconda istanza suprema fosse intervenuta, lascia assieme affascinati e fortemente  commossi. E sopratutto sconcertati. Troublés.