La nebbia cresce sulla brughiera, due ragazzi corrono e sfidano le nubi basse che sembrano assorbire le loro presenze per poi farle ritornare alla vita. Così vuole la leggenda che sta alla base del celebre romanzo di Emily Bronte, Cime tempestose: l’amore incompiuto di Catherine e Heathcliff prende vita nell’atmosfera uggiosa dello Yorkshire facendo apparire le silhouette dei due innamorati.

Lontana da un adattamento canonico al romanzo, la regista inglese si accosta al testo con in mente questa corsa immaginifica, quanto evocatrice, di un ragazzetto di colore (il giovane Heatcliff) e la ragazzina di campagna (Catherine) che lo ha accettato come fratello adottivo, ma lo vorrebbe come innamorato. Una scena essenziale nella sua semplicità, che sembra la cifra stilistica utilizzata dalla regista per mettere in scena uno dei romanzi gotici più complessi e sovraccarichi. La trama è ridotta all’essenziale, concentrandosi soltanto sulla prima parte del romanzo ma riuscendo perfettamente a conservare la struttura bipartita, necessaria per mettere in risalto il giro di vite al centro di un’ossessione amorosa. Non serve lasciare il testimone ai figli dei protagonisti (che rivivranno come in uno specchio i desideri incompiuti dei loro predecessori), in questo film basta intessere una serie di rimandi interni tra presente e passato, talmente concreti da riassumere emozioni in immagini emblematiche. La linea del collo dell’amata, la sua lingua che lecca delicatamente le ferite dell’ingiustizia, la curva di uno sguardo che da complice si trasforma in voluttuosa sono i segni di un amore, capace di rigenerarsi nella terra bagnata e tra le nubi impalpabili.

Il lavoro di Arnold si spinge lungo l’immaginario di Emily Bronte, fatto di aria (tempestosa), terra (fangosa), luce (accecante), ombra (ingannatrice). Elementi primordiali che diventano i protagonisti di questo film sensoriale, frastornante e sporco come raramente lo è stato “un adattamento letterario per signorine”. Nella dimora dimessa di Wuthering Heights non c’è spazio neppure per un abito femminile, che -anche quando sarà indossato- si ridurrà presto in cencio, come non c’è modo di vedere chiaramente il volto dell’amata, inghiottito dall’ombra creato dalle assi di una porta o dal lembo di una tovaglia. Dal nero, colore su cui si basa la ristretta tavolozza di Arnold, emergono i volti contratti dei protagonisti, i dettagli materiali di ciò che circonda -per necessità o per lusso- le vite di ciascuno e il pulviscolo che irrora l’aria cupa segnando con la sua instancabile mobilità la distanza dalla stabilità emotiva.

Se l’unica notizia a circolare era il colore della pelle di Heathcliff (per la prima volta nero sullo schermo, così come sulla pagina), il nuovo adattamento di Cime tempestose sintetizza il conflitto di classe e il problema razziale, con la delicatezza e la carica rivoluzionaria che era già propria della ragazzina di periferia protagonista di Fish Tank, ma non si ferma ad un aggiornamento “politico” della storia, trovando il suo momento più alto nella totale compenetrazione tra la vita interiore e il paesaggio che accoglie e veicola le emozioni umane. La brughiera e i suoi animali (facili prede per l’uomo), il giardino e i suoi fiori (incanto apparente e transitorio di una felicità fuggevole e capricciosa) fanno da contrappunto alle tappe della storia, creando il giusto respiro per un’invocazione finale a cui non c’è risposta: il lacerante grido di Heatcliff: “Non lasciarmi qui, dove non posso trovarti”.