La storia della costruzione degli automi è strettamente legata a quella dei meccanismi a orologeria: questa connessione, non certo peregrina, è scoccata inattesa mentre guardavo uno dei tanti frammenti di cui è composto il corpo frankeinsteiniano di The Clock. Opera-monstre della durata di 24 ore, il video dell’artista inglese Christian Marclay, dopo il successo già riscosso in alcune gallerie di Londra e New York, è giunto alla Biennale d’Arte di Venezia 2011 per accaparrarsi il Leone d’Oro. Si tratta di un colossale montaggio di spezzoni tratti da un imprecisato numero di film, in ognuno dei quali compare un orologio o un riferimento all’orario che coincide con il momento in cui esso viene proiettato: per capirci, mi sono seduto su un divano mentre l’orologio alle spalle di Robin Williams in One Hour Photo segnava le 16.07 e me ne sono andato con la testa ancora rivolta allo schermo che proiettava le 17.55, condotto pazientemente dagli addetti dell’Arsenale in chiusura, recalcitrante all’idea di non poter assistere all’evento del riallineamento delle lancette sulle 18.00.

Per quanto vi possa sembrare ridicolo, è proprio questo il fascino irresistibile di The Clock: ti incolla allo schermo senza poterne capire esattamente la ragione. Qualcosa di morboso e compulsivo rende curiosamente avvincente un’esperienza che si può facilmente identificare come la quintessenza della noia: osservare le lancette o le cifre di un quadrante scorrere inesorabili. Le file di persone che stazionavano a orari improbabili davanti alle suddette gallerie, in attesa di somministrarsi la propria dose di tempo perduto, fanno sorgere un’inquietante interrogativo sul potere di quest’opera. Sicuramente ha le carte per solleticare la cinefilia media inoculata in ognuno di noi. L’enormità del lavoro archivistico che la sostiene, poi, ha senz’altro un facile ascendente sul pubblico, riscattando un valore ‘artigianale’ che sembra sempre più screditato sulla scena dell’arte contemporanea. E anche la perizia di Marclay nel miscelare le immagini, glissando abilmente il sonoro, creando connessioni più o meno sensate e ammiccanti tra gli stacchi, contribuisce a rendere l’esperienza gradevole e accattivante. Detto questo non si può non condividere l’impressione di molti artisti e addetti ai lavori, che storcono il naso di fronte a quella che è poco più di una buona trovata, freddamente concepita e astutamente confezionata.

Eppure, nella sua povertà di emozione e di pensiero, The Clock conserva una propria oscura necessità, che è difficile rischiarare, ma è impossibile liquidare. Deve avere in qualche modo a che fare con la dimensione interstiziale tra arte e cinema in cui si colloca, quel territorio che oggi è buona etichetta definire “post-cinema”, ma che è sempre esistito ai margini delle istituzioni, in quanto zona di sperimentazione e di interrogazione dell’immagine in movimento. Certo siamo lontani dall’intensità ipnotica di Rose Hobart (1936), opera fondativa per la pratica cinematografica del found footage, con la quale Joseph Cornell, grazie al sottile détournement di un B-movie esotico, dedicò all’attrice del titolo un film-scatola che ha la stessa grazia perturbante dei suoi collage plastici. Tantomeno si ritrova la furia iconoclasta con cui Alberto Grifi e Gianfranco Baruchello facevano a pezzi il continuum spazio-temporale e ideologico del cinema hollywoodiano nella loro Verifica incerta (1964).

Quello di The Clock è piuttosto un magnetismo ottuso, una fascinazione cadaverica che ha stretti rapporti con lo status di morto vivente proprio del cinema nel nostro tempo. Esauritosi il secolo della sua gloriosa esistenza, esso vive di una vita postuma, uno stato di decomposizione dal quale affiorano germi vitali per nuove pratiche ed esperienze. Un enorme archivio da attraversare, riorganizzare, rianimare: questa è la vertigine attraente offerta a molti artisti in questa interminabile fine del cinema. Da questo presupposto possono poi sorgere capolavori ultimi come le Histoire(s) du cinéma di Jean-Luc Godard oppure congegni furbeschi come The Clock.

Dicevo degli automi: da questi primi, rudimentali dispositivi, il sogno/delirio di riprodurre le sembianze della vita, che ossessionava tanto il dottor Frankenstein quanto Thomas Edison, arriva a contagiare le stesse origini del cinema. La macchinazione di Marclay opera con i medesimi intenti sul suo corpo morto: sezionando e ricucendo, imprimendo al tempo fittizio dei frammenti filmici una torsione che li inchioda sul presente, vi instilla una vita artificiale che fa del cinema stesso uno spettrale automa e innesca una danza fantasmagorica fra le sue rovine. Voci, corpi, ritagli di spazio, conati di racconto baluginano per pochi istanti come scintille di un tempo altro, come fantasmi costretti a infestare i luoghi in cui hanno vissuto. In questo flusso a scatti, accidentato e accidentale, il cinema ci offre la propria danse macabre, il suo sterminato corpus si rianima al ticchettio del meccanismo di The Clock.

(originariamente pubblicato su xxx)