NOTA
: il testo che pubblichiamo è stato inviato in forma di mail da Walter Murch, montatore e sound designer (THX 1138 – L’uomo che fuggì dal futuro, Apocalypse Now), a Roger Ebert, a seguito della recensione di Green Hornet pubblicata da quest’ultimo sul Chicago Sun-Times.

Ciao Roger,
ho letto la tua recensione di Green Hornet e anche se non ho visto il film sono d’accordo con i tuoi commenti sul 3D.
L’immagine del 3D è scura, come dici tu, e piccola. In qualche maniera, gli occhiali “restringono” l’immagine – anche su un gigantesco schermo Imax – e ne riducono di metà l’ampiezza rispetto a quando si guarda lo schermo senza occhiali.
Ho montato un film in 3D nel 1980 (Captain Eo) e mi sono accorto anche di come nel 3D il movimento orizzontale tenda ad andare per scatti molto prima di quanto accada con il 2D. Era così allora ed è così anche adesso. Ha a che fare con la quantità di impegno che il cervello dedica a percepire il margine delle cose. Più siamo consapevoli dei margini, prima comincia l’effetto “a scatti”.

Il problema più serio con il 3D, però, riguarda la questione “convergenza/messa a fuoco”. Gli altri problemi – l’oscurità e il restringimento dell’immagine – sono risolvibili, almeno in teoria. Il vero problema è che gli spettatori mettono a fuoco lo sguardo sulla superficie dello schermo, diciamo a 25 metri di distanza. E questa distanza è sempre costante.
Ma i loro occhi sono costretti a convergere prima a 5, poi a 15, poi a 30 metri di distanza, e così via, a seconda del meccanismo illusorio. Dunque il 3D obbliga i nostri occhi a mettere a fuoco a una certa distanza e a convergere a un’altra. E, nel corso di 600 milioni di anni di evoluzione, questo problema non si è mai presentato prima. La messa a fuoco e la convergenza da parte di qualunque essere vivente dotato di occhi ha sempre avuto luogo sullo stesso punto.
Se fissiamo una saliera sul tavolo vicino a noi, gli occhi mettono a fuoco e convergono a un metro di distanza (immaginiamo un triangolo la cui base stia tra i nostri occhi e la punta sull’oggetto fissato). Poi guardiamo fuori dalla finestra: i nostri occhi metteranno a fuoco e convergeranno a 15 metri di distanza. Il triangolo immaginario adesso si è “aperto” e le rette del nostro sguardo sono quasi – quasi – parallele l’una all’altra.

Questo è quello che facciamo. Se non andasse così i film in 3D non funzionerebbero. Ma è complicato, come darti delle pacche sul capo e grattarti lo stomaco contemporaneamente. Il processore del nostro cervello è costretto a svolgere un lavoro extra, ed ecco perché a molte persone viene il mal di testa dopo 20 minuti. Si ritrovano a fare qualcosa a cui 600 milioni di anni di evoluzione non li ha preparati. Questo è un problema serio, che nessun tipo di rapido aggiustamento tecnico può risolvere. Non c’è modo di produrre vere immagini “olografiche”.
Di conseguenza, il “montaggio interiore” dei film in 3D non può essere veloce come quello dei film 2D, proprio a causa di questo continuo spostamento della convergenza: l’occhio e il cervello necessitano di alcuni nanosecondi per “riconoscere” la distanza di ogni inquadratura e aggiustarvisi.

Infine, la questione dell’immersione. I film in 3D ricordano allo spettatore che si trova in una certa relazione “prospettica” con l’immagine. È quasi una questione brechtiana. Mentre, quando la storia di un film conquista il pubblico presente, la platea finisce per trovarsi “nel” film, in una sorta di spazio onirico “senza confini”. Una buona storia, quindi, procurerà all’immagine sempre più dimensionalità di quanto siano capaci di farlo gli effetti tecnici.

Allora: scuro, piccolo, a scatti, causa di mal di testa, alienante. E dispendioso. La domanda è: quanto ci vorrà prima che la gente capisca che non ne vale la pena?

Saluti,
Walter Murch

(traduzione di Alessandro Stellino)