L’onirico, distorto e ambiguo finale de I misteri di Lisbona lascia spazio a qualche dubbio di interpretazione. La fredda cronaca no. Raúl Ruiz, nato cileno e vissuto apolide, è scomparso a 70 anni lo scorso 19 agosto lasciando in eredità un’ultima, immaginifica e immensa opera compiuta. Ispirato all’omonimo romanzo di Camilo Castelo Branco, pubblicato nel 1854 in Portogallo, I misteri di Lisbona ha fatto il giro del mondo, tra Festival e mirate uscite nei cinema, lasciando prepotenti e unanimi solchi nei cuori della critica cinematografica. In Italia, sembra superfluo dirlo, il testamento artistico del maestro cileno non ha avuto la diffusione e l’attenzione che meritava, eccezion fatta per l’usuale mosca bianca “Fuori Orario”.

L’opera narra le vicende dell’orfano João, che per iniziativa del suo tutore, Padre Dinis, scopre durante la prima adolescenza di chiamarsi Pedro e l’avventurosa storia della propria famiglia, conclusasi con l’affidamento all’orfanotrofio. L’amore impossibile fra i genitori di Pedro/João, il misterioso passato di Padre Dinis e del suo compadre Mangiacoltelli/Alberto di Magalhães, la tragica storia di vendetta di Elisa di Montfort, l’autoinflitto esilio finale: il racconto, ancorato fin da subito alla prospettiva della narrazione in prima persona di Pedro, si prende infinite libertà, dimenticando la necessità di un centro gravitazionale e vagando in un flusso di coscienza ipnotico che risucchia lo spettatore per tutta la sua durata.

I misteri di Lisbona parla di amori, gelosie, abbandoni, tradimenti, vendette e soprattutto di destino. Ruiz dipinge un universo sociale e drammatico in cui il fatalismo regna sovrano, in cui la mano del destino agisce quasi indisturbata – e, abbastanza ironicamente, il più delle volte per mano del personaggio di Padre Dinis, vero e proprio deus ex machina interno alla narrazione – sulle vicende già scritte (già narrate) di questo manipolo di personaggi. Il narratore, Pedro, la forza motrice che anima la vicenda messa in scena dal regista, ha forse un’unica certezza nella vita, un punto fermo che resiste al turbinare degli eventi. Si tratta di un teatrino regalatogli dalla madre, una sorta di palcoscenico/diorama con il quale ricostruisce le situazioni e i momenti di una vita travagliata, avventurosa e priva di riferimenti. Con questo affascinante espediente metanarrativo, Ruiz ci suggerisce come le vite dei suoi personaggi abbiano senso solo perché messe in scena, esistano solo perché raccontate, oggettivate nella soggettività dell’affabulazione. Tale discorso mantiene coerenza e compattezza fino in fondo, quando risulta chiaro che, fra tutti gli attanti coinvolti, Pedro, nonostante il ruolo di creatore della narrazione e alter ego dell’autore, è quello meno in controllo, maggiormente esposto alle bizze del fato.

Ruiz si fa interprete e tramite di un’opera mondo che non vorrebbe avere limiti e, per la sua struttura narrativa che rimanda alla tradizione ottocentesca del romanzo d’appendice, potrebbe semplicemente non avere termine e continuare all’infinito. E, paradossalmente, è proprio così: l’autore cileno opta per una conclusione brusca e arbitraria, lasciando aperti a qualsiasi interpretazione i destini della maggior parte dei personaggi principali. Ma il racconto muore con il narratore e a Ruiz non interessa dare vuota soddisfazione a un pubblico abituato a un certo tipo di fruizione narrativa standardizzata. Al cileno sta a cuore portare avanti il discorso (più ampio, universale e profondo) sulla natura del racconto a cui si accennava nel paragrafo precedente, accompagnandolo a una messa in scena coerente e, come spesso è accaduto nel corso della sua lunga filmografia, sorprendente.

Ruiz mette in scena questo caotico universo di anarchia narrativa – in cui tutto vale ed è talmente inconsueto da smettere di esserlo poco dopo, così come smettono di essere plausibili le connessioni fra una vicenda e l’altra in un lento processo di svelamento del fluire libero e dinamico del film – allestendo curatissimi set di stampo teatrale, dove i margini dell’inquadratura diventano quinte e si susseguono lunghi, elegantissimi piano sequenza in cui la macchina da presa diventa, a tutti gli effetti, un personaggio attivo del film, ulteriore vertice di complesse figure geometriche diegetiche costruite insieme ai corpi attoriali. Quello che più   stupisce della regia è proprio il suo scientifico scontrarsi con la natura intima della narrazione che viene messa in scena. Il coacervo di situazioni, personaggi, colpi di scena, improbabilità ed eccessi che si affastellano in un crescendo di cui è arduo tenere traccia tanto è fumoso, eccentrico e libero, trova il suo sfogo estetico in una regia elegante, lucida, rigorosa e, soprattutto, sempre perfettamente a fuoco, in grado di dare senso e bellezza a un caos quasi primordiale.

Peraltro, la forza primitiva della narrazione riesce, a volte, a scardinare anche la perfezione della messa in scena, regalando rapidi e indimenticabili momenti di puro onirismo che possono durare lo spazio di un dettaglio (la “soggettiva” dal basso di un tavolino di vetro mentre due personaggi rimettono insieme i pezzi di una lettera strappata) o quello di una lunga inquadratura (la pistola puntata in camera dalla contessa Elisa di Montfort). Eppure la scena più emblematica de I misteri di Lisbona è caratterizzata proprio da quel fuoco totale di cui si parlava sopra, una scena che (come giustamente fa notare Tony Pipolo in un lungo articolo pubblicato su Film Comment di luglio/agosto) oltre a citare il celebre momento di Quarto Potere in cui i genitori di Charles Foster Kane decidono il destino dell’ignaro bambino mentre questi, sempre in scena e a fuoco sullo sfondo, continua a giocare inquadrato dalla finestra, è anche il momento di snodo principale del film, l’attimo in cui Ruiz svela il suo atto di fede nei confronti della verità della finzione. Pedro, in primo piano e inquadrato di profilo, origlia per caso Padre Dinis e la ritrovata madre parlare di lui e del suo destino al di là di una vetrata (sullo sfondo, il tutto reso in profondità di campo). La conversazione viene sostanzialmente doppiata da Pedro, che sa già tutto, ha già vissuto quel momento e lo sta semplicemente narrando a nostro uso e consumo. Una scena semplice, elegante, simbolicamente significativa che dà l’idea del controllo sul mezzo raggiunto in quasi cinquant’anni di carriera da Ruiz, che se ne va lasciando un corpus cinematografico immenso, di 112 opere (più due film incompleti; fonte Imdb), testimone di una ricerca filmica preziosa e inesausta e capace di toccare tutti gli ambiti dell’audiovisivo (dal documentario alla serialità televisiva). Un’eredità salvifica e imprescindibile.