Si apre come una cartolina, La pelle che abito, con un’inquadratura fissa su Toledo e una data, il 2012. All’immobilità delle prime immagini segue quella della raffigurazione del corpo di una donna, congelato in pose plastiche e avvolto in una tuta aderente color carne. Si tratta di Vera, cavia del chirurgo plastico Robert Ledgard, che su di lei sta sperimentando un nuovo tipo di epidermide, resistente a bruciature e punture di insetti. Scopriamo ben presto che il corpo della donna è in condizione di prigionia, recluso in una delle stanze di El Cigarral – ex clinica privata e abitazione di Robert – e guardato a vista da svariate telecamere. L’insistita idea dell’imprigionamento e della costrizione corporea si ritrova anche in altri momenti dell’ultimo film di Pedro Almodóvar, come nelle sequenze ambientate nello scantinato in cui è segregato Vicente subito dopo il suo rapimento, nella clinica psichiatrica in cui è rinchiusa Norma (che a sua volta si autoimprigionerà in un armadio, nel timore della violenza attribuita al sesso maschile) e nella camera da letto buia e priva di specchi che accoglie la moglie del chirurgo.

Tuttavia il registro orrorifico e claustrofobico che contamina progressivamente l’ultima opera del regista spagnolo – liberamente tratta dal romanzo Tarantola di Thierry Jonquet (Einaudi) – si dispiega soprattutto nella metafora del corpo stesso come prigione dell’identità sessuale. Un tema che non rappresenta certo una novità all’interno della drammaturgia almodovariana, ricca di personaggi transgender o in conflitto con un involucro fisico sentito estraneo, ma che questa volta viene declinato con distacco chirurgico e a tinte dark e thriller, sfuggendo le calde forme avvolgenti del melodramma.
In Tutto su mia madre era il personaggio di Agrado ad affermare che «… una tanto più è autentica quanto più somiglia all’idea che ha sognato di se stessa» e a ribellarsi alla prigionia del corpo attraverso il ricorso alla chirurgia plastica. In La pelle che abito, invece, il regista spagnolo rovescia la prospettiva proponendoci un corpo maschile costretto dalla stessa chirurgia ad assumere fattezze femminili e a subire una sessualità che non gli corrisponde. Dall’infernale primo piano dei dilatatori che dipingono sbarre verticali sul volto atterrito di Vicente, allo stupro da parte dell’uomo chiamato El Tigre, catalizzatore delle pulsioni sotterranee di Robert, fino al dolore che frena il rapporto erotico tra Vera e il chirurgo-demiurgo, il sesso – nella doppia valenza di atto fisico e carattere identitario – è costantemente rappresentato come forma di sopraffazione e perdita di sé. L’affermazione che legittimava la mutazione di Agrado, trova risonanza nelle parole di un’insegnante di yoga provenienti dalla televisione: «…non confondere la forma con l’essenziale»; tuttavia questa volta non per sostenere la possibilità di una scelta, quanto l’accettazione di una condizione subita. Robert lavora sul corpo della sua vittima piegandone i connotati al suo bisogno di riconciliarsi con un passato traumatizzante, esattamente come farà più avanti con un bonsai, costringendone i rami con del fil di ferro. Ma se la dinamica tra vittima e carnefice nella prima parte del film sembra definita dal conflitto di genere tra donna succube e uomo dominante, a partire dai successivi flashback – che ci rivelano un Robert vittima di un destino crudele – quest’idea tende a sfumare. Così come vengono meno le nostre certezze su Vera e la sua identità sessuale, e su quanto quest’ultima sia inscindibilmente legata alla nostra fisicità.

Almodóvar pare lavorare sul corpo del film con la stessa perizia di Robert, destrutturando la narrazione in piani temporali che ricuce a suo piacimento e attuando precise scelte registiche che lo vedono lavorare soprattutto per sottrazione. Accanto alla deprivazione espressiva dei personaggi, volutamente trattenuti in maschere rigide, viene messa in atto un’omissione dello sguardo che ci solleva dalla visione completa dell’orrore delle operazioni chirurgiche, per suggerirci invece la soffocante violenza psicologica sottesa alla vicenda. Così, tra dettagli di bisturi, schermi, telecamere, maschere facciali e carnevalesche, il regista dipinge la fragilità dell’apparenza e della forma, citando Fritz Lang e Georges Franju, riecheggiando i mutanti di David Cronenberg e Frankenstein di Mary Shelley, ma anche inserendo all’interno della scenografia riproduzioni di opere di Rubens, Tiziano e delle sculture bisessuate di Louise Bourgeois.
A chi ha parlato di un autore smarrito nella sperimentazione di nuovi registri, La pelle che abito pare già fornire una risposta: nessun processo trasformativo può essere indolore né rapido; ma se queste sono le premesse, sarà interessante seguirne gli sviluppi e vedere quale pelle arriverà ad abitare Almodóvar.


La pelle che abito (La piel que habito), Spagna 2011, 117′