Quali immagini ci resteranno dell’Italia del nuovo millennio? Guardando con gli occhi del futuro l’ormai esigua produzione cinematografica nazionale, tutta concentrata in mascherate piccolo-borghesi che reiterano un tempo del benessere andato perduto, lo studioso di domani si troverà a fare i conti con una preoccupante omologazione del linguaggio (e del messaggio). Unici superstiti sono i filmmaker, coloro che scelgono di tenersi ai margini dell’industria cinematografica evitando – spesso accuratamente – di vivere a Roma, e arrangiandosi con poco: i loro film appartengono a quel cinema di idee che è il terreno prolifico per una nuova formazione del linguaggio cinematografico dettato da una società in continua trasformazione. Le loro immagini, potenti ed enigmatiche, stanno faticosamente ricostruendo, a livello internazionale, una nuova mappatura dell’identità italiana: la Genova di Pietro Marcello, la Calabria di Frammartino, il Friuli di Comodin, non a caso tutti film premiati all’estero e poco visti da noi.

Martina Parenti e Massimo D’Anolfi partecipano di questa resistenza cinematografica, assumendosi il gravoso incarico di testimoniare i luoghi della contemporaneità, senza ritrarsi nel passato (della memoria collettiva o personale) ma spalancando gli occhi sulle quotidiane deformazioni politiche e sociali, di cui spesso siamo silenziosi conniventi.

Il loro percorso insieme (che porta a felice compimento le intuizioni dei primissimi film di ciascuno dei due) inizia proprio con uno schiaffo all’Italia gaudente pre-crisi economica: nel 2007, con I promessi sposi, compiono un viaggio lungo la Penisola, di comune in comune, seguendo le coppie prossime al matrimonio e il loro incontro con l’istituzione. Velato di un umorismo caustico e inchiodato in una posizione rigorosa, il film è la migliore commedia all’italiana del nuovo millennio: consegna l’immagine di un Paese totalmente scisso dal Potere che lo domina, mettendo in tragica evidenza la mancanza di un linguaggio comune tra cinese e italiano, italiano e siciliano, tra amore e legge. Decisi a continuare l’indagine lungo il nostro Paese e le sue contraddizioni, la coppia di cineasti passa ad affrontare la classe dirigente del domani con Grandi speranze (2009), che segue tre giovani imprenditori e le loro imprese in Cina: la debolezza e il provincialismo del loro operato lasciano intravvedere l’ombra lunga dell’imminente crisi economica.

Lontani dal farsi ammaliare da temi di stretta attualità, Parenti e D’Anolfi riescono ad affrontare figure chiave e procedure impazzite di una realtà che osservano con passione crescente e giusto distacco, mantenendosi in un precario equilibrio tra empatia e ironia. Raffinati spettatori di cinema del reale e curiosi indagatori del presente, con il loro ultimo film Il Castello riescono a realizzare uno dei rari documentari prodotti interamente in Italia ad essere invitato ai maggiori festival internazionali, vincendo numerosi premi (il Premio Speciale della Giuria agli Hot Docs di Toronto e all’EIDF di Seoul, il Premio Arci Doc alle Visioni Italiane di Bologna, il Premio della Giuria al Torino Film Festival e il Premio per la Miglior Fotografia agli International Documentary Awards di Los Angeles). Ancora una volta individuano un luogo cardine della contemporaneità, l’aereoporto e le sue zone inaccessibili al pubblico, per comporre una sinfonia visiva che sa dare voce alla moltitudine e al singolo, alternando l’evocazione di uno spazio collettivo alla storia individuale di chi lo attraversa o lo abita. Un saggio per immagini sulla società del controllo, i cui fantasmi sembrano prendere le forme dei personaggi di Bresson e Fassbinder.

Senza cadere nel referente come unico interesse, i vostri film hanno il pregio di affrontare argomenti originali e perfettamente coerenti per raccontare l’Italia d’oggi: la coppia, l’impresa, il controllo sono parole che aprono una chiara chiave di lettura della contemporaneità. Come si è svolta la ricerca dei soggetti da trattare?

Massimo D’Anolfi: I film nascono un po’ per caso: da fatti quotidiani che catturano la nostra attenzione. Ad esempio l’idea di Grandi speranze è sorta durante un pranzo di nostri coetanei, in cui abbiamo notato lo strano fenomeno per cui un ragazzo, piuttosto schivo e insignificante, appena ha detto di essere iscritto a Confindustria ha monopolizzato la situazione, conquistando la bella ragazza di turno che da quel momento ha avuto occhi solo per lui. È un episodio come tanti, ma per noi è stata una scintilla per scoprire coetanei che hanno fatto scelte diverse dalle nostre.

Martina Parenti: Invece Il castello è nato dopo una parentesi in cui abbiamo osservato per un breve periodo l’asilo nido sotto casa. Nel momento in cui siamo diventati genitori, ci piaceva l’idea di poter seguire i primi passi di un bambino molto piccolo, il prodigioso apprendimento che avviene ogni giorno. Abbiamo osservato i bambini per tre settimane e poi abbiamo cambiato idea. Forse semplicemente perché non era il momento giusto.

MDA: Un giorno mentre stavo attendendo di salire su un aereo ho pensato che il terminal, di cui tanti pensatori hanno scritto, è in realtà un ambiente poco raccontato al cinema. Neppure il grande documentarista Frederick Wiseman gli ha mai dedicato un film! Disegnarne una mappa sarebbe stato interessante, soprattutto spingendosi in quelle zone inaccessibili e misteriose per chi non ci lavora. Ho condiviso la mia idea con Martina e abbiamo subito provato a chiedere i permessi convinti che non ce li avrebbero mai dati. Invece hanno accettato.

Avevate voglia di confrontarvi con un luogo fisico, questa volta.

MP: Penso avessimo voglia di incastrarci in una situazione con dei confini chiari. I promessi sposi lo era, con la sua idea di seguire le coppie d’innamorati di fronte all’ufficialità della legge. Grandi speranze, sui giovani imprenditori italiani in Cina, molto meno.

MDA: Sentivamo il desiderio di andarci a cacciare in un posto dove il racconto per immagini fosse più forte che non la parola. Già il finale di Grandi speranze andava in questa direzione.

Avevate già un’idea della struttura del film quando avete chiesto i permessi?

MP: No, ottenere il permesso è stata la prima cosa. Anche se a Malpensa entrano molte telecamere, era difficile ottenere il permesso per poter riprendere quello che avveniva nell’arco di un anno. L’aeroporto stava uscendo da un momento di crisi e forse la Sea, la società che lo gestisce, ha visto il nostro documentario come la possibilità di rifarsi un’immagine. Noi, nella richiesta, abbiamo puntando l’attenzione sui tanti mestieri non raccontati e non certamente su parole come “controllo” e “frontiera”. Così abbiamo ottenuto l’autorizzazione per un anno di riprese in aeroporto e il 28 dicembre 2009 abbiamo iniziato a girare. Le riprese si sono concluse nel novembre 2010.

MDA: Fin da subito abbiamo notato quanto l’aeroporto sia simile a un grande polmone, con spazi enormi vuoti e piccole cellette molto piene. C’è un’armonia in questo movimento e abbiamo cercato di trovarla nel film. È stata una suggestione visiva, un ritmo, una sua musica. Accogliere, sputare fuori persone.

La vostra esigenza primaria era la permanenza prolungata nel sito o avevate già pensato di strutturare il film secondo il succedersi delle quattro stagioni?

MP: Sicuramente, per noi, il documentario d’osservazione esige un lungo periodo dedicato alle riprese, ci lasciano sempre un po’ perplessi i film che pensano di entrare in una realtà complessa in pochi giorni. In questi casi dubitiamo della serietà e della profondità della loro indagine. Massimo ha realizzato le riprese a partire dall’inverno, quando tornava a casa le guardavamo e iniziavamo a selezionarle. Mano a mano che il tempo passava si definiva il progetto che ha poi trovato nelle diverse stagioni una naturale suddivisione. Del resto Il castello è un viaggio, che – se vogliamo – segue l’arco della vita, il suo naturale percorso, quindi anche i suoi cicli.

MDA: Abbiamo iniziato ad avere la conferma che il film ci fosse a marzo del 2010. Ho incontrato Diego (il ragazzo che viene scoperto mentre sta cercando di passare il confine italiano con ovuli di cocaina in pancia ndr) e ho ripreso la sua perquisizione. Sono tornato a casa, sicuro che le nostre intuizioni ci stessero spingendo nella giusta direzione.

Non è semplice stare di fronte a qualcuno in balia della paura. Come è stato trovare la giusta posizione in una situazione simile?

MDA: È stata una danza, perché a me piace filmare. Certo ci sono situazioni diverse: ne I promessi sposi c’era un’unica posizione giusta (anche – ma non soltanto – per motivi spaziali: le ristrettezze delle aule comunali) e l’abbiamo cercata e trovata. Con Diego, nel corridoio dove attende ed è interrogato, c’era la possibilità di spostarsi. A volte si resta fermi con la videocamera perché ci si affeziona troppo a se stessi, all’immagine degli altri che si è trovata, e invece bisogna fidarsi dei propri soggetti e, se necessario, continuare a cercare il giusto punto di vista. Con Diego è stato così, in un attimo ho capito che dovevo spostarmi, cambiare, la magia nel nostro incontro l’ho sentita mentre stavo girando.

Diego nel finale del vostro incontro lancia uno sguardo in macchina ed è un momento molto intenso e carico di domande.

MDA: Filmando Diego pensavo al protagonista di Pickpocket, così lungo e secco, perso in un luogo di nessuno. Ho provato a restituire allo spettatore lo stesso smarrimento.

Solitamente voi lavorate insieme sia nella fase di riprese che in quella di montaggio, ma in questo film avete seguito una pratica diversa. Può aver influito su un diverso traguardo in fase di post-produzione?

MP: Sicuramente il montaggio di Il castello è stato molto più armonico rispetto al film precedente. Non so se è stato determinante il fatto di non essere entrambi presenti in fase di riprese. Abbiamo sempre proceduto scegliendo il materiale mentre giravamo, anche se il montaggio lo concentriamo in una fase successiva. Con Il castello, poco a poco si componeva il film nel naturale susseguirsi delle stagioni.
Ovviamente ci sono state delle grandi scelte, soprattutto nella fase iniziale. Massimo andava tutti i giorni a Malpensa e aveva scoperto dei luoghi magnifici: pensate che all’interno dell’aeroporto c’è una sala di ristorazione con 32 cucine diverse per le compagnie di tutto il mondo! Anche l’hangar in cui vengono aggiustatu gli aerei era un antro molto suggestivo…

MDA: … ma erano situazioni che non ci avrebbero aiutato ad entrare nel film, l’interezza, la mappatura totale, non era la via giusta. Volevamo tenere il filo rosso del controllo grazie a cui raccontare una molteplicità di situazioni e storie diverse.

MP: Per esempio, abbiamo scelto di non montare una sequenza in cui il nipote di Sironi era stato chiamato per certificare l’autenticità di un quadro di suo nonno. Era un episodio interessante, ma che prendeva una piega troppo surreale. Oppure le scene del controllo della valuta. Le persone spesso partono piene di soldi che non vengono dichiarati, e questo non è consentito. Avevamo riprese molto divertenti su famiglie in cui persino i neonati erano imbottiti di banconote, ma la situazione diventava troppo comica e a quel punto sapevamo che questo film aveva un’atmosfera diversa.

MDA: Il film è un viaggio malinconico verso la morte, queste scene invece erano piene di vita con la sua confusione. Nel film c’è un percorso suddiviso in quattro movimenti: accompagniamo lo spettatore dentro un luogo, una situazione, una storia e poi lo lasciamo libero di perdersi.

Da I promessi sposi a Il Castello, il punto di vista rispetto alla struttura presa in considerazione diventa sempre più preciso. Dal rigore del primo film, fino allo sguardo che sembra venire dal futuro de Il Castello. Come influisce il soggetto che scegliete di trattare sul punto di vista che adottate?

MP: Il castello è un film in cui abbiamo riflettuto molto sulla posizione da tenere. C’era già successo con Grandi speranze perché ci confrontavamo con persone molto diverse da noi, quindi l’ironia e il distacco erano essenziali ma non dovevano trasformarsi in una cifra che non permettesse anche una certa empatia. Ne I promessi sposi ci eravamo fatti delle domande di fronte all’ironia che pervade tutto il film. Ma Il Castello presentava una maggiore complessità…

MDA: …e la situazione di Diego, il ragazzo paraguayano, ci ha aiutato a chiarire la nostra posizione: volevamo rifuggire da uno sguardo giudicante che dividesse i buoni dai cattivi, i deboli dai forti, la realtà è molto più complessa e aver assistito alla vicenda di Diego lo chiarisce una volta per tutte. Crediamo di aver restituito la grande dignità del ragazzo, anche se colpevole. Perchè le persone non sono il proprio reato.

MP: Per noi restituire la storia di Diego o di Milietta (la signora che vive nell’aeroporto) è un gioco d’equilibrio frutto di una riflessione sulla responsabilità, sulla giusta distanza. Ed è qui che per noi si gioca questo film, e forse più in generale tutto il buon cinema documentario.

E in effetti Il Castello ha concorso in tanti tra i migliori festival di documentari internazionali, vincendo gli HotDocs canadesi, oltre a tantissimi altri premi. Questa affermazione internazionale ha cambiato qualcosa nella produzione dei vostri prossimi progetti?

MP: Direi di no. Ogni film riparti da zero, anche se il precedente è andato bene. E questo segna anche una sconfitta personale.

MDA: Continuiamo a fare film nello stesso modo.

In coppia avete già prodotto tre film con modalità più o meno simili: qual è la formula che avete trovato per poter realizzare opere indipendenti e libere? Quali pensate possano essere i limiti più rilevanti?

MDA: Il Castello è stato fatto con la nostra società di produzione, Montmorency Film (attiva da tre anni, dalla realizzazione di Grandi speranze) grazie a trentamila euro dati da Rai Cinema e da altrettanti offerti da uno sponsor privato, la Lines; con questo budget siamo riusciti a realizzare il film, utilizzando attrezzature che sono di nostra proprietà e avvalendoci della collaborazione di un’unica persona che è il montatore del suono e compositore Massimo Mariani.
Nonostante il budget modesto, Il Castello ha avuto un ottimo successo internazionale, ha vinto premi di rilievo ed è stato fatto vedere già in 50 festival nel mondo. Ma dall’Italia non è arrivata nessuna nuova proposta né distributiva né produttiva, dall’estero invece hanno comprato il film diverse televisioni… La frustrazione maggiore resta legata al fatto che i nostri film continuano a non poter raggiungere il pubblico italiano, purtroppo. Un film che ha incrociato il nostro in diversi festival è lo svizzero Vol Special: nel suo Paese è uscito nei cinema e si è guadagnato 100.000 spettatori solo nelle prime settimane. In Italia invece, aldilà dei festival, non si è ancora trovata una modalità di fruizione per il cinema documentario.

MP: Forse l’unico cambiamento di prospettiva che abbiamo avuto dal successo estero è stato provare ad allargare le nostre prospettive, tentando di raccogliere l’interesse internazionale fin dalla fase di produzione.

I vostri ultimi due film sono finanziati dalla Rai. Neppure questo partner prestigioso è riuscito a farvi trovare uno spazio nei cinema o almeno nella televisione italiana?

MDA e MP: La nostra collaborazione con la Rai è avvenuta grazie a due persone, Cecilia Valmarana e Sara Conforti, che hanno creduto nei nostri progetti, anche se non riguardavano strettamente un campo di loro competenza. La cosa curiosa è che anche se i film hanno il sostegno Rai e la televisione potrebbe metterli in onda, non lo fa o meglio non l’ha ancora fatto. Uno dei pochi programmi Rai di documentari, Doc3, non ha mai trasmesso i nostri lavori. Il problema è profondo e riguarda non soltanto i singoli dirigenti – che hanno sicuramente la responsabilità pubblica del loro operato e delle loro scelte – ma anche l’incapacità diffusa di esercitare liberamente un sguardo critico. Quando Il Castello è stato rifiutato da Lorenzo Hendel, il responsabile di Doc3, attribuendo il rifiuto a una precisa linea editoriale del programma che “privilegia la narrazione di storie individuali forti e centrate su singoli personaggi”, invece di insistere e di imporci, come avrebbero fatto altri produttori, abbiamo deciso di scrivergli una breve mail: “Ci dispiace che non mandiate in onda il nostro film, ovviamente. Non siamo d’accordo con voi e troviamo la vostra linea editoriale limitante per il vostro programma, per il servizio pubblico per cui lavorate e per tutte le persone che a diverso titolo realizzano documentari in Italia. E inoltre pensiamo che la vostra visione del documentario sia davvero poco lungimirante”. Per ora Il Castello non va in onda, ma, con una battuta, diciamo che noi lavoriamo per il futuro.
 
Si capisce bene come il problema della trasmissione del documentario sulla televisione pubblica italiana non sia legato alla durata, ma abbia pericolosamente a che fare con la scelta del linguaggio.

MDA: Fare documentario oggi in Italia vuol dire per forza appartenere a una marginalità. Non ci illudiamo di attirare molti spettatori, penso che soltanto documentari d’effetto come Videocracy di Gandini possano riuscirci, forse. La vera sfida – ben lontana dall’essere affrontata – è la formazione di un nuovo pubblico, che si distacchi dal già noto.

Nei vostri film, l’uomo è succube di un ingranaggio (le leggi de I promessi sposi, le ambizioni di Grandi speranze, lo stato di polizia de Il Castello), il senso di oppressione è sottolineato da scelte formali come la distanza dai soggetti, la mancanza dei volti.

MDA: Abbiamo sempre realizzato dei film sul potere. Il Castello, con le sue stagioni, è un viaggio verso la morte. È un film cupo: l’unica persona che riesce a prendere un volo è qualcuno che vuole restare: un rifugiato politico che non ha nessuna intenzione di tornare in Nigeria, ma che viene costretto. Anche nei film precedenti abbiamo saccheggiato i titoli dei grandi classici della letteratura, ma qui ovviamente il riferimento a Kafka è più programmatico, volto a sottolineare la burocrazia che imprigiona l’uomo.

MP: Non so se abbiamo una visione cupa della vita, di sicuro non ci andava di adagiarci sull’idea favoleggiante dell’aeroporto, come non luogo, luogo di scambi… Le frontiere sono luoghi cruciali che spesso determinano una svolta nella vita delle persone…

MDA: Per questo Il Castello è un saggio sul potere attraverso il cinema, la cui visione è sicuramente cupa. L’aeroporto è una sorta di laboratorio delle pratiche del controllo, ciò che si sperimenta lì poi viene adottato nelle città. Un esempio sono le videocamere di sorveglianza o il metal detector. Inoltre sotto il nome controllo di frontiera diventano lecite tante cose inammissibili.

Il vostro impegno nel ridare un’immagine all’Italia d’oggi, vuol dire anche usarla come specchio del mondo e le sue radicali trasformazioni.

MDA e MP: Il nostro punto di partenza è raccontare delle situazioni che conosciamo profondamente, perché solo così riusciamo a riflettere  sulla responsabilità nei confronti di ciò che filmiamo. Filmare è un atto violento, ma sembra che pochi riflettano su questo punto. La capacità di leggere i documentari è molto bassa. E quando si pone la domanda sulla responsabilità del documentarista non sono molti quelli che hanno voglia di mettersi in discussione. Raccontiamo un aneddoto, che ci piace molto, riguardo Kieslowski. Mentre stava girando La stazione, a Varsavia nel 1979, si era concentrato su alcuni armadietti automatizzati che erano appena stati messi per modernizzare il luogo. Un giorno la polizia gli sequestra tutto il materiale girato nei pressi degli armadietti. Kieslowski, perplesso, consegna il materiale e solo in seguito scopre che una persona era stata uccisa, fatta a pezzi e riposta dall’assassino in una valigia proprio in quegli armadietti. Grazie alle riprese del regista, la polizia sperava di incastrare il colpevole. Kieslowski, pietrificato dall’idea che un uomo potesse essere condannato a causa delle sue riprese, da quel momento ha abbandonato i film documentari.
Noi continuiamo a farli ma con questa consapevolezza sempre chiara in testa, ad ogni inquadratura.

Milano, 14 febbraio 2012