Le origini viste attraverso il
blockbuster statunitense o l’Hollywood classica nelle vesti del
mid-cult europeo? Sintomatica del nuovo millennio questa spartizione
di statuette tra due film che guardano alla storia del cinema,
facendole prendere le forme più rappresentative del contemporaneo:
Scorsese si mette alla prova realizzando il suo film ad alto budget
in 3D, mentre Hazanavicius confeziona un pastiche che incontra il
plauso del pubblico alla perenne ricerca di una cultura priva di ogni
parvenza di alterità. Forse proprio nell’ottica di questa dicotomia va letta l’attribuzione delle statuette: si premia “artisticamente” lo
sfoggio di cultura francese e “tecnicamente” il tour de force
hollywoodiano (primo film interamente girato in 3D, più dell’epocale
Avatar), in una ripartizione vittima del senso d’inferiorità
americano o fiera di una codifica del linguaggio cinematografico
ormai irrimediabilmente andata perduta.

Nella francessima Parigi del 1938, un
ragazzino si aggira nella stazione di Montparnasse. Parla in inglese,
perché forse la sua condizione di orfano lo fa uscire direttamente
da un romanzo di Dickens o forse perché il linguaggio del cinema è
ben altra cosa dalla lingua dei suoi protagonisti. Per Scorsese, la sfida è
evidentemente cimentarsi con un genere a lui estraneo, il cinema
per ragazzi, con la sua struttura narrativa poggiata più su figure
archetipiche che sui rigidi tempi delle sceneggiature hollywoodiane.
Non ci stupiscono quindi il padre perduto, il dono misterioso
(l’automa), il nuovo maestro, la compagna di viaggio, il magico
intervento di un personaggio che porta una nuova consapevolezza
(Tabart), l’antagonista (il gendarme, la cui evoluzione si deve a
un’idea di Scorsese): sono punti saldi di una narrazione aperta a
dei vuoti, delle sospensioni, dei detour che permettono l’affiorare
di una cultura novecentesca di cui il cinema è piena espressione.

Se con Hugo si entra in un mondo, il
secolo passato, estraneo agli occhi di qualsiasi ragazzino d’oggi,
lo si fa fin dalla prima scena che culmina con la vorticosa ascesa
nella torre dell’orologio: meccanismi, ingranaggi, la tecnica,
presentata nella sua maniera così tangibile e assimilabile, così
lontana rispetto all’odierna società mediatizzata e immateriale. È
proprio all’interno di questa immersione in un mondo altro che Scorsese può
innestare la sua lezione di storia del cinema, operando di tanto in
tanto una marginalizzazione dell’istanza narrativa. Una lezione che non si
esplicita soltanto attraverso qualche capatina al cinema con Harold
Lloyd, i feticci di scena e la grande storia di Méliès. Il cinema è
la forma che assume la realtà novecentesca in cui le aspettative
degli spettatori sembrano forgiare nuovi avvenimenti. È successo
prima l’incidente alla Gare Monparnasse o la leggendaria fuga degli
spettatori di fronte a L’arrivé à la Gare Ciotat dei Lumiére?
Sembra chiederci Scorsese, riprendendo il celebre saggio sui baffi di
Hitler di Bazin, in una delle sequenze più suggestive del film, che
trasfigura l’incubo di un secolo. Ma anche: Hugo deve entrare in
una sala cinematografica per seguire i tempi del cinema muto oppure
la stessa vita della stazione (con padroni e cagnolini, timidi reduci
di guerra e incantevoli fioraie) segue i dettami delle comiche di un
rullo dei primi del Novecento (come scrive nella sua completa analisi
di Kristin Thompson)? Non a caso proprio le scenette di vita
quotidiana sono tra i pochi elementi spurii rispetto al singolare
volume tra romanzo e graphic novel da cui è tratto il film (La
straordinaria invenzione di Hugo Cabret
).

Se è vero che il dispositivo di base
resta una caccia al tesoro dagli indizi cinefili (capace di veicolare
nozioni come misteri da scoprire), Scorsese sa bene dove arrestarsi,
dove cedere il passo all’immagine del passato, a cui ha – da buon
maestro – preparato i suoi spettatori, anche i più piccoli. La carica
emotiva del film si scioglie due volte nelle scene del cinema delle
origini che ritornano sullo schermo, sfidando il 3D e riducendo la sua
portata alla lanterna magica.

L’incontro di Scorsese con il cinema
delle origini passa proprio dallo scontro, dall’aver
scelto di realizzare questo film con la tecnica più lontana
possibile dall’incantato mondo del cinema di George Méliès.
L’altissima qualità tecnica del 3D, mai realizzato con un tale
perfezionismo (ogni fotogramma del film è in 3D per la prima volta
nella storia del cinema), costituisce l’estremo punto di distacco con cui il
cinefilo Scorsese può osare accostarsi a un maestro e a un fondatore
della sua personale religione. Il cinema di Méliès muore nella sua
irriducibile volontà a non assumere un codice realistico (o sarebbe
meglio chiamarlo illusorio?), capace di accogliere la profondità nel
quadro: proprio questa bidimensionalità, sottolineata dalla scelta
di oggetti scenografici in cartoncino e dalla mancanza di movimenti
nella profondità del campo, è rafforzata dall’effetto 3D sui suoi
film costruiti su un unico piano.

Il rigore autarchico e la fuga
centrifuga del cinema delle origini è sostituito dall’iper-realismo
di un’immagine 3D che fin dall’inizio ci fa vivere un movimento
opposto alla veduta Lumiere: con Hugo ci gettiamo tra la folla che
scende da un treno inseguendo senza sosta la profondità illusoria di
un’immagine piana, costretti a rincorrere un punto di vista
disumano e forsennato che in realtà ci impedisce di allargare la
vista là dove vorremmo. Solo nello scontro con il giocattolaio
Méliès ritorniamo allo sfondo perfettamente perpendicolare alla
camera, come se quell’uomo dal fare arcigno detenesse la sua
rappresentazione, teatrale e piana, anche se confinato a una
bancarella di cianfrusaglie.

Una visione che sarà restituita a noi
spettatori nel pacificatorio galà del finale, dove possiamo fermarci
a guardare: un dono ottenuto alla fine del percorso; come se ce la
fossimo dovuta guadagnare, la nostra visione, così guidata nelle
immagini tecnologiche di Scorsese, così libera di vagare nei piani
meliesiani.

Forse Hugo Cabret è un viaggio verso questa
liberazione dello sguardo, d’impossibile riattualizzazione anche
per un maestro del cinema moderno come Scorsese. Ma il discorso del film non è indirizzato al rimpianto nostalgico del bel
tempo che fu e lascia all’automa (spettro del secolo passato) il
compito di reiterare all’infinito un unico disegno. Il simulacro
del cinema del passato è l’essere inerme e misterioso che
campeggia nella casa senza famiglia di Hugo, il cui padre ha preso
fuoco ed è scomparso con la rapidità di un rullo di pellicola 35mm.

Nell’anno in cui il digitale sta
rimpiazzando definitivamente il supporto analogico dell’arte
cinematografica, c’è chi contempla il suo mortifero simulacro
cercando – come l’automa – di riproporre
un modo di rappresentazione ormai sordo ad ogni fermento vitale (non
è forse questo lo sforzo di Hazanavicius con The Artist?) e chi ci
restituisce la memoria della settima arte ricomponendola soltanto
grazie a una nuova forma: un blockbuster per ragazzi confezionato da
un cineasta, fautore a dieci anni di distanza di una storia e di una
favola sul cinema. Film colmo d’amore, capace di rinfondere la vita
e la speranza, Hugo Cabret è un’operazione coraggiosa resa
possibile solo grazie all’entusiasmo di chi non ha mai perso la
fiducia nella vitalità dell’arte cinematografica. Per questo
Martin Scorsese si conferma un grande “maestro” di cinema: al
contrario del suo George Méliès: accetta un linguaggio a lui
estraneo (il 3D) per portare a compimento un percorso a ritroso nella
cinefilia e nel cinema, convinto di poter donare una memoria a tanti
piccoli maghi, un giorno più consapevoli e di nuovo liberi di alzare lo sguardo.