Solitaria colonna sonora del film, le note delicate di una chitarra acustica scorrono via ininterrottamente, seguendo il battito delle acque del vicino fiume Mekong. Un film-fiume-flusso. O un flusso-fiume-film. Come volete voi. È Mekong Hotel. Apichatpong Weerasethakul, il suo regista, ci arrischiamo a dire che è una speranza per il cinema e per l’umanità. Quanta dolcezza vi è nel suo cinema, anche quando, a tratti, ci perdiamo nel tempo delle sue immagini o restiamo esclusi dal suo ermetismo. Un commento musicale scarno, speculare all’intero documentario, un documentario di lavoro, potenziale, da parte di un regista appassionante. Ma Weerasethakul ci dice sempre qualcosa di appassionante sullo stato del mondo con i suoi modi trasognati. Anche quando, come in questo caso, realizza un cinema minimalista. Quanti registi ci danno l’impressione di entrare in potenti mondi fantastici pur essendo potentemente calati nella contemporaneità e nell’interpretazione dei suoi problemi più scottanti? Vengono in mente pochi nomi, Akira Kurosawa tra questi. Così l’essenzialità presente nella forma-film di questo documentario forse diverrà un giorno un lungometraggio – intitolato Ecstasy Garden –, forse no. Nato nell’ambito del progetto La Lucarne d’Arte France volto a proporre documentari atipici realizzati da registi rinomati (Alexander Sokurov, Naomi Kawase, Alain Cavalier, Ben Rivers, ecc.), Mekong Hotel è la possibile prima parte di un progetto di respiro più ampio.

Siamo di fronte a un meta-apichatpong, un making off concettuale e (auto)ironico sul suo cinema passato e sul suo cinema in divenire. In una stanza del Mekong Hotel risiede una donna-vampiro, pronta a mangiare sua figlia proprio nel momento in cui la romanza di quest’ultima si concretizza. Le viscere della figlia sul suo stomaco sono così poco lavorate sul piano degli effetti speciali, che il vero gioco sembra quello di far vedere il cinema nella sua nudità, nella sua essenzialità d’idee, che dovranno poi essere raffinate. E diventare quelle immagini fantasmatiche, quei fantasmi dolci e inquietanti che nel cinema dell’autore di Blissfully Yours ci ammaliano e ci ossessionano.

La magia del cinema riportata al suo stato primario, questa è la cifra del giovane maestro del cinema thailandese. Qui Apichatpong è curiosamente più prossimo alla scientificità dei Lumière che al magnifico baraccone di Méliès.
Di solito sono le suggestioni fantomatiche, la trasfigurazione del reale, ad esser tipiche dei suoi lungometraggi, oltre ai numerosi corti (in più di un caso sono lavori per video-installazioni, come il progetto Primitive1, da cui è derivato Zio Boonmee che si ricorda le vite precedenti, Palma d’oro a Cannes 2011). Ad esempio il corto di Phantoms di Nabua è proprio una via di mezzo: lo splendore di una poesia fatta con nulla, con fuochi al confine tra il crepuscolo e la notte ammaliando dei ragazzi. Il crepuscolo: è il momento giusto, il momento di cerniera, di frontiera, per donne-vampiro, per mostri della notte dagli occhi rossi, per tigri telepatiche. Il tema reale sono invece i problemi politico-sociali, spesso legati a fantasmi politici del passato. Allora cosa di meglio se non rappresentare quest’ultimi, sotto forma di un pallone avvolto dalle fiamme calciato da ragazzi che guardano un cielo fatto di fulmini, di bagliori forieri di probabili distruzioni. Una contemplazione dell’Apocalisse, nella zona di Nabua che nel 1965 fu teatro di un sanguinoso scontro tra agricoltori locali comunisti e il regime totalitario della Thailandia, a cui seguì una lunga e dura occupazione da parte dei militari.

Per Apichatpong il cinema è un mezzo d’espressione per trasfigurare il presente iscrivendolo nella sostanza della luce, che usa “per mostrarci come bellezza e violenza possano coesistere”. Ci deve essere sempre la possibilità di conciliare, se non addirittura unire, lo yin e lo yang, in una complessa alchimia che troviamo all’interno dell’architettura di Tropical Malady, suo capolavoro riconosciuto. Film diviso come sempre in due parti: nella seconda, ambientata nella giungla, avviene nella notte una prima magia, un albero che brilla e pare abitato da un’entità. È invece un albero traboccante di lucciole. Questa prima apparizione, del tutto spiegabile in termini realistici e razionali, serve di cerniera, di frontiera, a quelle più magiche e soprannaturali.

Le opere di Weerasethakul seguono (o forse sono uno dei più alti esempi) un cinema mondiale che cerca di far rivivere allo spettatore la meraviglia del cinema delle origini, qualcosa della purezza primigenia dello sguardo. Ma i suoi film sono costituiti anche da momenti più realistici, filmati con un approccio naturalistico, che ritroviamo nella prima parte di Tropical Malady e in maniera alternata in Zio Boonmee. Di nuovo – semplificando – abbiamo i Lumiére, da un lato, e Méliès, dall’altro.

In Mekong Hotel si sente di più la magia dei Lumière, sia nelle parti magiche e di fiction, sia nelle parti più naturali e documentaristiche. C’è meno frattura del solito, anche se le stranezze, le bizzarrie ci sono come sempre. Forse le apparenze ingannano ancora una volta. Ci sono le diarchie o “due metà”: due storie d’amore tra eterosessualità e omosessualità, immigrati clandestini e abitanti natii del luogo, e poi ancora due blocchi narrativi, tra ambivalenze umane ai limiti della schizofrenia, sintomo – anzi sindrome per riprendere il titolo di uno dei lungometraggi del regista – di cambiamenti troppo brutali. Ci sono i fantasmi, gli esseri mutanti – i diversi del mondo fantastico notturno, da rispettare e con cui dialogare al pari dei diversi del mondo quotidiano diurno –, ci sono le frontiere, c’è la stessa ambientazione di Phantoms of Nabua e Zio Boonmee, e per questa ragione ci sono le stesse ferite della Storia. Sono film, infatti, situati in una zona, anzi in una linea di confine: il nord-est della Thailandia, frontiera tra il Laos e la stessa Thailandia. Due paesi che hanno conosciuto grandi mutamenti e sconvolgimenti.

Il cinema del thailandese tende sempre alla composizione delle diarchie, all’amalgama, all’ibridazione: in Zio Boonmee chi lo assiste – noi diremmo la “badante” grazie all’odioso linguaggio di scuola leghista – è una laotiana. Sono aree dove il problema dirompente è l’educazione, unico modo per superare i problemi legati al passato, come riconosce lo stesso regista perché “il sistema educativo tendeva spesso al lavaggio del cervello, e del resto è ancora così attualmente”. Insomma, fratture e opposizioni sono la sostanza stessa del suo cinema.

In Hotel Mekong la donna vampiro vive con la colpevolezza la sua essenza: lo stato di schizofrenia di cui sopra. Nel film vi sono del resto inquadrature in cui la donna appare insieme alla figlia “mangiata”, poi di colpo la figlia non c’è più, poi di nuovo c’è. Sono diffrazioni della temporalità, reincarnazioni di momenti diversi del vivere, scarti tra mondo reale e mondo della leggenda o veglia e sogno, stati della mente alterati? O il prima e il dopo i “trucchi” che fanno la magia del cinema. Forse un po’ tutto questo insieme. Siamo tutti legati, malgrado le diffrazioni: siamo mostri e siamo angeli al pari del dolce flusso del Mekong, gigante buono che dorme al pari della donna vampiro sul letto, ma che se si sveglia può rivelare tutta la sua cattiveria, spietatezza e brutalità.

Mekong Hotel, ambientato nell’omonimo albergo diventato campo di prigionia situato in una città di frontiera tra Laos e Thailandia, è stato girato nel periodo delle terribili inondazioni che hanno colpito il paese nella prima parte del 2011. Intanto, frammenti di conversazioni tra le persone a bordo del vascello-hotel sul Mekong parlano delle loro paure e tristezze concrete. Il documentario riprende il sopravvento. E si può molto ben documentare, se ne rendano conto i fanatici del documentario ortodosso (in Italia ce n’è un’inflazione), anche con pochi frammenti d’intervista, frammenti di conversazione, di vita, appena sussurrati dove angosce del passato (i fantasmi) e paure del presente, svelano la totale assenza di una prospettiva per il futuro: il vuoto. La lunga inquadratura finale dall’alto sulle moto d’acqua, con i loro disegni e movimenti fantasiosi, questo sono: mutazioni, reincarnazioni di questo vuoto in un dolce oblio. L’oblio della contemplazione e della riflessione.

Il cinema di Apochatpong è un potente e immaginifico sismografo di tutte le turbolenze che attraversano i cosiddetti paesi in via di sviluppo: il suo cinema, facendosi attraversare da tutte queste confusioni, riesce a mutarle, a smussarle, in una sostanza unica del sogno e della speranza. Ed è propositivo per il futuro: tutte le opposizioni sono divorate dalla dolcezza.