L’ultima opera di Olivier Assayas rievoca una delle grandi ossessioni del suo autore: l’idea di uno spazio identitario da ricercare, abitare, abbandonare, riutilizzare, occupare, perchè la storia – personale e collettiva – possa evolvere. L’aveva già messa in scena in L'heure d'été, saga familiare affrontata attraverso la storia di una casa, passando per L’eau froide, inquieto bildungsroman nel quale il prezzo da pagare per il raggiungimento della maturità era l’abbandono della dimora paterna, allargando poi il discorso alla dimensione storica di Carlos, il cui protagonista è costantemente sballottato da un appartamento all’altro e, nella parte finale, da un Paese a un altro. In  Aprés Mai il tema è invece innestato nello spazio urbano parigino, dipinto sin dalle prime sequenze come un’area sotto assedio. Con la sua rappresentazione della manifestazione parigina del febbraio del 1971 a Place de Clichy, Assayas mette in scena l’opera di accerchiamento e sfondamento di ogni barriera attuata dalle «brigate speciali d’intervento» inviate dalla Prefettura. Come reazione, i giovani militanti costretti alla fuga proveranno ad appropriarsi di quei luoghi utilizzando armi opposte rispetto ai loro avversari: manifesti, vernici spray, volantini fatti volteggiare in aria per sparpagliarsi disordinatamente al suolo, simboli dissonanti e fuori contesto attraverso i quali sovvertire le leggi e il potere coercitivo delle strutture architettoniche, riflesso di un sistema politico, culturale ed economico da capovolgere.

Il Situazionismo e la sua potenza eversiva, evidentemente omaggiati in questo prologo (la pellicola è dedicata ad Alice Becker-Ho, vedova di Guy Debord, alla quale il regista nel 2005 aveva già raccontato la propria esperienza giovanile nella lettera-libro Une Adolescence dans l’après-Mai), trovano un’incarnazione nella figura di Gilles, alter ego di Assayas. Il suo agire durante la narrazione è infatti un continuo tentativo di détournement: dall’incisione di un simbolo anarchico su un banco di scuola, alla diffusione clandestina di manifesti e giornali, all’action painting praticato nell’intimità della propria camera, fino al lavoro su un improbabile set fantascientifico londinese, Gilles si eleva sempre al di sopra degli altri personaggi; e non solo perchè Assayas aderisce al suo punto di vista, alla sua distanza critica rispetto alle fratture interne alla Sinistra storica e alla sua profonda conoscenza dei linguaggi della controcultura, ma soprattutto per la sua partecipazione incondizionata allo spirito situazionista.

È grazie a questo snodo concettuale che Assayas arriva a costruire una sceneggiatura in grado di contemplare, accanto a una profonda meditazione politica sulla disillusione e lo spaesamento che impregnano l’aria dei primi anni Settanta, una riflessione metacinematografica sulla natura del proprio ruolo di cineasta. Gilles, come Assayas, è figlio di un regista e sceneggiatore – che nella fattispecie realizza i film su Maigret interpretati da Jean Richard – e di un cinema tradizionale e rassicurante, che tuttavia non è meno conservatore e borghese di quel cinema di propaganda, praticato dalla compagna Christine e da altri militanti intransigenti, che pretende di veicolare messaggi rivoluzionari attraverso codici classici e stantii. La terza via, che con difficoltà emerge tra questi opposti, è quella della sperimentazione e della libertà del gesto creativo; un atto che, in un contesto storico come quello descritto, è destinato ad essere compiuto in solitudine, individualmente, prendendo le debite distanze dal mondo (“Il reale bussa alla mia porta e io non apro”, confida Gilles). Non a caso è l’ultima delle proiezioni che costellano il film ad assumere il valore di un’epifania per il protagonista: per la prima volta solo davanti al grande schermo, senza i compagni ormai in viaggio su strade incompatibili rispetto alla sua, Gilles contempla le immagini sovraesposte e abbaglianti del suo primo amore Laure, strappata alla vita troppo presto, ma ancora in tempo per indicargli la via dell’arte. La pellicola si rivela così il supporto per restituire la vita e donare un senso alla morte, non ultima quella delle nostre aspirazioni. 

Assayas non si sottrae allo scandaglio di emozioni e contraddizioni proprie dell’adolescenza e, con i suoi dolly dall’alto e il ricorso al piano sequenza su boschi, case affollate e giardini, si mostra ancora capace di disorientarci tra i movimenti dei corpi e dei desideri, ancora abilissimo nel far emergere quel tenero erotismo che già aveva fatto vibrare di poesia L’eau froide.  Esattamente come nel film del 1994, di cui Après Mai è l’ideale completamento, i brani musicali entrano in gioco come elemento di contestualizzazione storica, e ancor di più come aggancio autobiografico, in quanto colonna sonora della stessa adolescenza dell’autore; perfettamente inserite nella diegesi e mai imposte ai personaggi, le incursioni sonore di Après Mai – una selezione di brani di Syd Barrett, Nick Drake, Tangerine Dream, Soft Machine, Phil Ochs, Incredible String Band, Mike Heron e Robert Wyatt – avvolgono soprattutto l’intimità di Gilles, mentre nel film precedente segnavano momenti di socialità e condivisione tra i personaggi.
 
In questo progetto lineare e certamente più didascalico rispetto a L’Eau Froide, una rete di simboli sottesa al racconto arriva tuttavia a universalizzare il peregrinare dei protagonisti e a demolire la retorica legata all’innocenza del maggio ‘68. Se può esistere una verità storica, Assayas la ricerca infatti non tanto nella ricostruzione – pur precisa in ogni dettaglio – di scenografie e costumi, quanto nei segni: quelli che resistono portando in salvo la memoria del passato, e quelli che sono destinati a bruciarsi nell’atto stesso della loro produzione. Ogni personaggio tenta a modo proprio di lasciar sedimentare una traccia di sé, che sia un’incisione sul tronco di un albero, un’opera pittorica, un filmato o una lettera scritta a mano. Di contro, il fuoco si innesca a più riprese come elemento di cancellazione e oblio: Gilles che incendia uno dei suoi disegni quando il cambiamento che riscontra in Laure rischia di spegnere la sua vocazione artistica, o i grandi falò della festa – la più esplicita tra le citazioni da L’eau froide – attorno ai quali delle ragazze danzano disorientate e senza più alcun punto di riferimento apparente.
 
Sfuggire alle fiamme della rimozione può significare fare sacrificio di sé, com’è per Laure con il suo lancio nel vuoto dissolto nel nero, o com’è stato per i corpi carbonizzati di Pompei, raggelati in un ultimo urlo perpetuo. Per chi resta, tra la cancellazione del fuoco e la conservazione dei relitti, aleggia il limbo di una cortina di fumo. La nube dei lacrimogeni nella sequenza degli scontri con i celerini, che preannuncia il disorientamento e la cecità che di lì a poco colpirà il movimento studentesco, riecheggia infatti nel fumo artificiale dello studio dove si gira il film di fantascienza. Le divise delle autorità ora sono riproduzioni di tenute da Terzo Reich, i nemici mostri di cartapesta, la lotta una scena mal recitata: comunque la si voglia leggere, la sequenza metaforizza nella maniera più lucida e amara possibile il pericolo di una memoria storica distorta, e il disorientamento di fronte a una generazione che ha perso di vista quale sia il vero nemico da combattere. È ancora Gilles/Assayas a rifiutare tutto questo e a scegliere di uscire di scena passando dietro a uno schermo, ombra silenziosa che lascia definitivamente una storia, dei riti collettivi e un linguaggio che non sono più i suoi, né i nostri. 
 
Après Mai, regia di Olivier Assayas, Francia 2012, 122'.