All’inizio di Bella addormentata, il senatore del PDL Uliano Beffardi, davanti alla TV, apre una copia de “Il Giornale”. Pochissimi secondi dopo, e in indubitabile continuità temporale, la ripiega e ripone – ma il quotidiano è ora “La Repubblica”. Un goof tra i più memorabili di sempre, perché la sua incontestabile involontarietà entra in clamorosa risonanza con uno degli assunti del film. Altrove, infatti, sua figlia Maria (militante anti-eutanasia) viene aggredita da un giovane (Pipino) di opposta fede politico-sociale, che più tardi si rivelerà non meno ciecamente integralista di lei: griderà slogan perfettamente religiosi (Eluana è in croce, lasciatela andare in paradiso). Gli opposti, insomma, si rivelano vicinissimi. Cosa unisce l’uno e l’altra? Come spesso in Bellocchio, una figura materna spaventosamente ingombrante (alle radici delle convinzioni di Maria, c’è il ricordo della madre morente, in coma).

Il solito archetipo materno serve insomma a Bellocchio per articolare i paradossi della biopolitica, corrente filosofica di derivazione foucaultiana che ha sacrosantamente insistito, negli ultimi decenni, sulla centralità, per il Potere, della conservazione della vita in sé e per sé. Facendosi protettore della “nuda vita”, e separandola così da ogni determinazione, il Potere può così svuotare l’arena politica da quella linfa che la dovrebbe nutrire: il conflitto. La strumentalizzazione del caso Englaro da parte dell’allora maggioranza (e della Chiesa) ne è l’esempio più lampante.
Il Potere, in altre parole, si giustifica da sé quale garante della mediazione tra la “nuda vita” la cui separazione lui stesso ha ricavato, e le determinazioni di essa. A testa bassa, Bella addormentata va contro l’idea stessa di mediazione. Il fratello di Pipino, innamorandosi (ricambiato) di Maria, parrebbe incarnare la possibilità di una mediazione – ma fallisce, e i due si separano. All’inizio, il film straripa di media (TV sempre accese in primis), i quali hanno concretamente la funzione di connettore e raccordo tra le diverse storie e scene. Essi, appunto, mediano. Poi però, mentre la loro presenza cala progressivamente, altrettanto gradualmente il racconto sposta il proprio baricentro dalla conservazione autoritaria della vita alla questione dell’immagine, o più precisamente, dell’attorialità. La dimensione politica, svuotata dal dispositivo biopolitico, ha pur sempre bisogno di un “segnaposto” che ne mascheri la vuotezza. Questo segnaposto è l’immagine: niente manifesta meglio del ventennio berlusconiano lo strapotere dell’immagine, davanti a cui destra e sinistra si prostrano quale ultimo e unico criterio di efficacia e presenza politica. Il Senato, sia esso corridoio o sauna, è nel film solo l’anticamera di se stesso, perché ciò che si scorge al di là degli stipiti una volta aperte le porte non è la prestigiosa aula, ma i pixel delle riprese televisive di essa. Per quanto Beffardi dissenta, il potere parlamentare è solo un’appendice dell’onnipotenza dell’immagine. Altrove, la celebre e devotissima attrice Divina Madre (Isabelle Huppert) si ritira dalle scene per assistere la figlia tenuta artificialmente in vita: il ritiro dalla dimensione pubblica (dunque politica) e la conservazione della vita in sé e per sé, si confermano tutt’uno. La figura materna è per eccellenza una figura di vita – ma nella visione ossessiva che ne ha Bellocchio (ora tangente la biopolitica) è una vita talmente indeterminata da ribaltarsi in morte-in-vita. Sigillo di questa ambivalenza è l’altra madre, quella di Maria, alla radice dell’integralismo anti-eutanasia della figlia pur chiedendo lei stessa al marito di morire.
Bella addormentata, si diceva, smonta la mediazione, e recupera la sana dimensione del conflitto – e dunque della politica. Con lo scorrere della pellicola, gli schermi accesi si diradano, e il racconto, da pedantemente attaccato alla progressione narrativa, si palesa sempre di più un groviglio di contraddizioni, un sistema di rime e simmetrie interne in definitiva statico. Un esempio: la Divina Madre si guarda continuamente allo specchio, perché il controllo sulla propria immagine coincida con il ritrarsi di essa dalla scena pubblica. Al contrario Beffardi, il cui gesto di far leggere la sua bruciante confessione di esecutore d’eutanasia privatamente alla figlia invece che in parlamento sbaraglia la linea stessa tra pubblico e privato, viene inquadrato pronunciare il proprio discorso in ufficio a fianco di uno specchio che lo riflette senza che lui vi si guardi. Anziché andare avanti, il film si scopre girare in tondo, intorno a un nucleo inavvicinabile e infatti non mostrato (la vicenda Englaro, sovra-esposta invece dai media) rispetto a cui non sa dare, fortunatamente, risposte se non in forma di parallelismi incrociati e di una inestricabile catena di antagonismi. Incurante della contrarietà (gli opposti coincidono), non sposa una posizione anti-anti-eutanasia, ma la ribalta assai più sottilmente, dall’interno. È dentro il (sedicente) religioso movimento per la vita che bisogna cercare il suo contravveleno: basta re-iniettare quella dimensione conflittuale che esso vorrebbe espellere. Viva il dottor Pallido allora, col suo tentativo di salvare una tossica con caparbie tendenze suicide, Rossa. Figura estrema della bellocchiana misoginia paranoica per cui il femminile è sovrapposizione tra vita e morte (per lei vivere è cercare costantemente la morte), Rossa offre il destro a una riproposizione del conflitto quale unica, vitale formula del rapporto tra i sessi, e antidoto della “biopolitica” onnipotenza della Madre. Tra i due è una lotta senza fine: Pallido, come Beffardi poco prima, riscopre il conflitto e la funzione paterna (ciò che non riesce al figlio della Divina Madre). Il conflitto incessante tra Pallido e Rossa è subito amore nel senso autenticamente (e non strumentalmente come per i pro-vita) cristiano di amore per il prossimo, e cioè dell’amore per ciò che un soggetto ha di più insalvabile, e dunque spietatamente e violentemente contro quel soggetto stesso. In quel dialogo rabbioso, finalmente, assistiamo a una perfetta, serratissima calibratura recitativa, dopo che tutto il film ha esibito attori platealmente fuori parte o sopra le righe – non per svista, ma perché il primo e principale antagonismo di cui riappropriarsi è quello, basico, tra attore e ruolo, e cioè tra la vita “nuda” e le sue determinazioni, che non dobbiamo più lasciare alle mediazioni del Potere, o alla falsa pacificazione dell’Immagine. La visionarietà che ci si aspetta da Bellocchio, è quasi tutta in questo assetto attoriale “fuori asse” che abbraccia il film; come in Buongiorno notte, non c’è letteralmente lo spazio per gli slanci visionari perché tutto si gioca in minuscole stanzette la cui angustia è di per sé segnale di un rapporto patologicamente pervertito tra il pubblico e il privato. E poi, perché mai dovrebbe cercare immagini visionarie proprio un film che si dichiara contro l’Immagine?
Tra le poche eccezioni, una scena in cui immagini del trionfo del PDL vengono proiettate addosso ad alcuni suoi membri che posano impettiti. È una citazione di Illibatezza (1963) di Roberto Rossellini. Certo, l’intenzionalità di una citazione è appena più tracciabile di quella di un goof. Ma anche quel cortometraggio rosselliniano ci metteva in guardia contro il rischio di liquidare troppo presto come maschilista la strutturale conflittualità tra i sessi: rischieremmo, come il “moderno” americano del film nell’ultima scena, di rimanere incatenati ad archetipi materni e di tentare vanamente di abbracciare e baciare un’immagine bidimensionale proiettata su uno schermo.
Bella addormentata, regia di Marco Bellocchio, Italia/Francia 2012, 110′.