Un caposaldo della storia del cinema filippino, Himala di Ishmael Bernal, è stato il primo film prodotto dall'ente governativo ECP (Experimental Cinema of the Philippines). Ricettacolo di awards in patria (al Metro Manila Film Festival e ai Gawad Urian Awards) e primo film filippino ad avere successo ai festival internazionali (alla Berlinale e al Chicago International Film Festival) e acclamato di recente come “best Asia-Pacific film of all time” all'Asia Pacific Screen Awards, è ora stato restaurato, in occasione del suo trentennale, dall'ABS-CBN Film Archives. Il film è stato restaurato in digitale HD, riuscendo a restituire una copia di qualità comunque non eccelsa a causa delle pessime condizioni di conservazione degli archivi filippini.
Himala prende spunto da un fatto di cronaca, la presunta apparizione della Madonna a una ragazza nel 1966 nell'isola di Cabra, episodio sulla cui autenticità le autorità vaticane non hanno mai preso una decisione. Sulla qualità soprannaturale o meno dei fatti narrati, Bernal mantiene una posizione sfumata. La vicenda inizia con un'eclissi, evento di temporaneo disordine cosmico che andrebbe derubricato nella categoria todoroviana dello “strano puro”, un fenomeno perfettamente spiegabile con le attuali conoscenze astronomiche ma che nel passato, e ancora oggi per molte popolazioni, poteva suscitare un timore reverenziale e assumere un significato arcano finanche escatologico. E che comunque riveste un fascino misterioso anche per l'uomo moderno: «In questo tramonto spaventoso e improvviso […] il silenzio è totale, tutte le creature viventi ammutoliscono», così  definisce il fenomeno János Valuska di Le armonie di Werckmeister.
 
Elsa, la protagonista di Himala, sembra una novella Emilia di Teorema, una ragazza di un barrio popolare, orfana, che viene travolta da un evento mistico. Ma il regista mantiene per tutto il film l'ambiguità sulla veridicità o meno, sia delle apparizioni della Santa Vergine che delle successive guarigioni miracolose. Queste non sono mai mostrate ma tenute rigorosamente fuori campo e potrebbero essere frutto di uno stato di trance visionario, di suggestioni, illusioni collettive, se non di imbrogli come quelli dei guaritori filippini in voga negli anni settanta. Si vedrà al contrario il suo fallimento, nella morte del bambino che non riesce a salvare. Le stesse stimmate potrebbero essere ferite autoinflittesi dalla stessa Elsa. Potremmo essere, sempre secondo Todorov, nella categoria del “fantastico strano”, che si giustificherebbe con una spiegazione razionale, piuttosto che nel “fantastico meraviglioso”. Da questo punto di vista Bernal sfoggia un'ironia caustica. L'unica guarigione documentata del film è quella di una turista che però era affetta da un semplice mal di testa. Subito dopo a Elsa viene sottoposta una bambina con una pesante malformazione al volto, una escrescenza alla “elephant man”, ma la scena si chiude prima di poter vedere il tanto sospirato miracolo, che avrebbe dovuto comportare una trasfigurazione magica, o la mancata realizzazione dello stesso. Verso la fine vediamo apparire l'uomo che era stato ucciso durante una rapina. Una resurrezione, finalmente? Si scopre subito dopo che si tratta in realtà del fratello del defunto. Poca importanza ha sapere se le guarigioni miracolose avvengano o meno. In fondo Elsa potrebbe giocare un ruolo più passivo che attivo, rispondendo semplicemente a quello che vuole il popolo, che è lo stesso a sancire il suo status o meno di santona. Singolare in questo senso che il percorso del funerale del bambino che non è riuscita a salvare, determinando così la sua squalifica da guaritrice, sia l'inverso a quello che conduceva al tempio dei miracoli, preannunciato con uno striscione trionfale di welcome sponsorizzato con il brand Coca Cola. Un meccanismo che si rompe solo nella battuta finale di Elsa, «Non ci sono miracoli. I miracoli esistono nei cuori della gente, nei nostri cuori», un discorso che decreta la sua immediata eliminazione.
 
Quello che interessa a Bernal è mostrare questa religiosità popolare, fatta di credulità e superstizione, commista con lo sciamanesimo. Il regista racconta tutto con secchezza, con un meccanismo narrativo rigoroso nella scansione degli eventi. Elsa riferisce dell'apparizione alla matrigna con non un'inverosimile nonchalance. E, dopo una breve fase iniziale di incredulità, in cui viene punita, viene subito sfruttata come guaritrice. Si viene così a creare una premiata ditta che sforna miracoli come una catena di montaggio. Un'attività taumaturgica che viene equiparata, in una battuta del film, alla prostituzione per gli aspetti mercenari, almeno dell'indotto che ha creato fatto di turismo, alberghi, souvenir e t-shirt. Alle immagini mariane ricorrenti si affiancano quelle, altrettanto ricorrenti, della Coca Cola. Ciò che interessa a Bernal è poi mostrare, con uno sguardo impietoso, degno di Herzog, questa umanità disperata di freak, di uomini affetti da vistose deformità o malformazioni. Un campionario di personaggi marginali che il regista insegue nelle sue opere, come City After Dark.
 
Himala è uno dei film che più ha influenzato il cineasta filippino Lav Diaz che già in uno dei suoi primi film, Batang West Side, mostrava il poster del film – a fianco di quello di un'altra opera seminale nella cinematografia filippina come Insiang di Lino Brocka – campeggiare nella casa di uno dei personaggi, singolarmente un documentarista. Diaz ne ha ripreso tanti temi e il suo penultimo film, Century of Birthing, si costruisce attorno a due coordinate, quella del fanatismo religioso e quella metacinematografica, tematiche entrambe presenti in Himala. Diaz infatti sviluppa, fino alle estreme conseguenze, la presenza di un uomo con la macchina da presa interno al film, incarnato da Bernal, il documentarista che segue la storia di Elsa. È delineato come una persona che non crede in Dio ma nella sua camera. Ma poi arriverà a confessarsi davanti a un sacerdote proprio per le sue immagini, per la sua passività voyeuristica nel riprendere la scena di uno stupro senza intervenire. E Bernal a un certo punto esibisce una lunga carrellata sulla folla arrivando a inquadrare una telecronista che sta riferendo in camera i fatti che stanno succedendo. Lo sguardo del regista viene fatto combaciare con quello della telecamera di una troupe televisiva. In nuce tanto cinema di Lav Diaz.