Uno sconosciuto, Shinji Soomai non lo è di certo. Dimenticato, nemmeno. Vale tuttavia la pena, oggi che la Cinémathèque Française, il festival di Edimburgo e altri gli dedicano omaggi e retrospettive, soffermarsi ancora su questa figura tutto sommato poco considerata. Molte storie del cinema nipponico (come quelle di Tadao Sato o Donald Richie) lo menzionano spesso piuttosto velocemente, e tutt'altro che a torto: si tratta di un cineasta innegabilmente, assolutamente discontinuo. Che cos'è allora che fa dire a un Kiyoshi Kurosawa (nel corso dell'edizione 2012 del festival di Deauville) che Soomai è “l'ultimo grande maestro del cinema giapponese” (1)? Affermazione in linea di principio contestabile, certo, ma che contiene senza dubbio (almeno) un grano di verità, che forse va cercato più dalle parti dell'aggettivo “ultimo” che da quelle del sostantivo “maestro”: dalle parti, cioè, della collocazione storica che egli si trovò ad occupare. 

Dopo una giovinezza passata nell'Hokkaido (nacque però nella prefettura di Iwate, nel 1948), Soomai approda a Tokyo come stralunato e donnaiolo futen (“hippie”, secondo una non esattissima traduzione), e fa il suo ingresso negli studi della Nikkatsu nel 1972. La gloriosa major, come altre in quel periodo, attraversava una profonda crisi, e si era appena convertita (fondamentalmente per sopravvivere) ai “roman porno”. Lì, si fa le ossa come assistente, fra gli altri per Noboru Tanaka e per Chusei Sone. Ne uscirà nel 1978, per fondare quattro anni dopo quella Directors Company nella quale figurano come co-fondatori anche nomi come Sogo Ishii e Kiyoshi Kurosawa (che un anno prima fu suo assistente per Sailor Suit and Machine Gun). Cruciale esperienza-ponte, la collaborazione con Kazuhiko Hasegawa (a propria volta ex assistente di Shohei Imamura) per il suo film-culto The Man Who Stole The Sun (1979).
 
Insomma: la carriera del marginalissimo (gente come Kiyoshi Kurosawa e Tadanobu Asano si sono detti profondamente segnati da questo personaggio di esplosiva singolarità) Soomai è legata a doppio filo a studios che in quel periodo erano di salute claudicante e precaria, ma del cui “peso” i suoi film continuano a testimoniare ampiamente. Non che questa integrazione sia particolarmente insolita in quel contesto nazionale: il punto, tuttavia, è l'evidenza, nel cinema di Soomai, di una sontuosità formale impensabile senza i consistenti mezzi che solo una major può offrire, e questo proprio in un'era segnata dal declino e della dispersione di quell'apparato in mille rivoli mediatici. Figura chiave, nel formarsi di questa filmografia che affianca tali consistenti tracce (o rovine?) di un'estetica “da studio” a spinte assai personali e centrifughe, è il fedele produttore Kei Ijichi, indispensabile nel garantire al cineasta i mezzi di cui abbisognava, e che a partire dai suoi esordi lo accompagnò ben dentro gli anni Ottanta, decennio che segna senza dubbio l'apogeo della carriera del suo protetto.
 
È soprattutto nel corso di tale decennio che abbonda con maggiore frequenza il tratto più vistoso del suo cinema: l'uso del piano lungo (il termine “piano sequenza” è notoriamente spinoso ed è dunque più prudente accantonarlo). Inquadrature che si protraggono per minuti e minuti senza stacchi, impegnando macchina da presa e attori (l'una e gli altri spesso in movimento) in coreografie spesso intricate e spericolate: valgano per tutte quelle che aprono The Catch o Lost Chapter of Snow: Passion. La seconda, in particolare, fonde insieme nel proprio presente continuo più strati temporali. Indubbiamente un tour de force, in primo luogo per gli attori: da essi, in effetti, Soomai ha sempre preteso moltissimo. Il grosso del suo lavoro di regista avviene a cinepresa spenta, allorché costringe gli attori a ripetere ogni scena spesso anche centinaia di volte: ciò che vuole ottenere (e per farlo, come si è detto, occorrono molti mezzi e molto tempo) è, innanzitutto, una certa densità nella recitazione (sovente fisica, sovente in movimento), un rilievo, una flagranza. Ciò si spinge non di rado fino ai confini della performance: per far scaturire l'intensità espressiva, gli attori vengono spesso messi in circostanze “estreme”, o quantomeno concretamente problematiche: in The Catch c'è una poco confortevole pesca al largo che i protagonisti effettuano davvero; in The Friends un bambino viene fatto camminare, a quanto pare senza alcuna protezione, su un muretto sotto il quale sfrecciano le vetture di una superstrada; ugualmente impressionante è l'assalto al camioncino operato da una bicicletta in corsa in P. P. Rider; in Sailor Suit and Machine Gun la protagonista è stata lievemente ferita a una guancia dalla scheggia di un bicchiere in una scena di scontro a fuoco per la quale il regista aveva consapevolmente trascurato di prendere le dovute misure di sicurezza per scrupolo di “realismo”.
 
Gli esempi potrebbero continuare copiosi, ma torniamo al suo piano lungo: è difficile, nonostante la sua articolata e intelligentemente segmentata tessitura, allinearlo a quello di, poniamo, Kenji Mizoguchi. Il più delle volte, infatti, non siamo in presenza di una oculata orchestrazione ritmica, ma di una sorta di piano lungo “molle”, in cui una certa abbondanza di (spesso folgoranti) geometrie di messa in scena si trovano a galleggiare in quelli che non si riescono a chiamare diversamente da “tempi morti” o “passaggi a vuoto”.
 
In questo senso, il piano lungo di Soomai assomiglia un po' alla sua carriera, in cui i “bassi” non sono stati certo inferiori agli “alti”. Il suo carattere “molle”, da un lato nebuloso e indeterminato e dall'altro invece acuto e vitale, è in fondo lo stesso che caratterizza l'adolescenza, la quale (insieme all'infanzia) è quasi sempre al centro dei suoi film, percorsi altresì da tutta una serie di ossessioni “collaterali” che fungono più da enigmatica presenza di contorno che da assi portanti di una “poetica”: Hokkaido, l'alcool, e soprattutto la pioggia, che davvero immancabilmente irrompe da un momento all'altro a rimarcare un momento di particolare “pendenza” drammaturgica. La messa in scena di Soomai, se corteggia volentieri l'indeterminato, viene squarciata da frequenti forme di dispendio fisico, più o meno organizzato, più o meno sedotto dall'attraversare per gioco o per sfida sempre nuove soglie – e in questo è intimamente vicina all'”età acerba”.
 
 
Ancora acerbo è il debutto The Terrible Couple (1980); il successivo Sailor Suit and Machine Gun (1981), commedia/romanzo di formazione su una liceale che diventa per caso boss della yakuza, se sbuffa e arranca sul piano narrativo, si fa ricordare per la caratterizzazione della protagonista, autentica inaugurazione (e indagine fotogenica) di quell'archetipo soomaiano che proseguirà in assoluta continuità anche in P. P. Rider, Lost Chapter of Snow: Passion, Typhoon Club, Tokyo Heaven, e per certi versi (ma l'età anagrafica si abbassa) Moving. In tutti questi casi, è praticamente un'unica figura di “giovane ragazza” che viene sbozzata: vitale ma in modo meccanico, letteralmente a metà tra la donna-bambina e il robot, è una linea retta inesorabile e gioiosamente sopra le righe, oggetto di attenzioni da parte di un uomo adulto curiosamente affettuose e asessuate. Nonché, spesso in fuga. Lo è quasi dall'inizio alla fine la co-protagonista di P. P. Rider (1983), sgangherato action in cui un gruppetto di adolescenti gira mezzo Giappone imbarcandosi in varie avventure per salvare un coetaneo goffo e sovrappeso rapito dalla malavita. Al di là dell'esilità dell'assunto, peraltro non esattamente aiutato dal montaggio finale che ha dimezzato una pellicola originariamente di più di quattro ore (e la coerenza del plot ne risente eccome), P. P. Rider appare oggi una specie di esercitazione di regia pura, un pretesto per l'accumulo di invenzioni visive in semilibertà, un Feuillade fuori tempo massimo e gioiosamente senza capo né coda che di ore potrebbe durarne anche quattordici, invece di quattro, tanto è irrilevante il filo della trama. Una sorta di prova generale delle successive, e più “quadrate”, dimostrazioni di pirotecnia stilistica: già in The Catch, dramma sociale dello stesso anno (1983), si avverte una più solida disciplina narrativa e formale. 
 
Il 1985 è sicuramente l'anno di grazia di Soomai: fa uscire tre lungometraggi, tutti da annoverare tra i suoi titoli migliori in assoluto. Il “roman porno” Love Hotel, stupenda e straziante parabola sulla parentela troppo stretta tra l'amore e la frustrazione, si struttura come un susseguirsi di atti sessuali mancati che culminano, non prima di averci avvicinato ai due protagonisti con vertiginosa sincerità, in un atto (la ripetizione consenziente di uno stupro avvenuto anni prima) finalmente “a segno”. L'orgasmo ci viene celato da una stupenda ellissi: poco prima di quel momento, la macchina da presa se ne va lentamente per conto suo, con un movimento assolutamente gratuito (che non manca di tornare subito dopo, simmetricamente, sui due amanti esausti), quasi a ricordarci come le indefesse coreografie del cinema di Soomai sperimentano il vuoto che assilla, circondandolo, qualsiasi cosa si voglia “compiuta”, e davanti a cui non ci rimane che la gioia gratuita e impotente del dispendio fisico. E infatti, poco più in là, l'amarissimo finale di Love Hotel, con la separazione dei due amanti dopo la consumazione di ciò che doveva essere consumato, come molti dei finali di Soomai, segna il compimento di un arco narrativo (quasi sempre una “maturazione” di qualche genere) non con una chiusura, ma con lo spalancarsi di qualcos'altro, sovente (come in Lost Chapter of Snow: Passion, Luminous Woman, Tokyo Heaven, Moving, Wait and See) una vera e propria fuga lisergica. La donna si allontana sconsolata dall'uomo che avrebbe potuto e dovuto essere il suo; entrano in campo, letteralmente dal nulla, bambini festanti sotto petali che piovono dal cielo; titoli di coda.
 
Lost Chapter of Snow: Passion (1985) avrebbe potuto essere tanto un melodramma quanto un giallo: una bambina viene adottata da un filantropico giovane in carriera, che la salva dalla dispotica famiglia adottiva precedente; cresciuta, vedrà complicarsi al massimo grado i rapporti con chiunque la circondi, fino a venire implicata in un misterioso omicidio. Non è tuttavia né l'uno né l'altro: è invece uno dei film più barocchi dell'autore, tanto narrativamente (ingegnoso l'uso dell'ellissi) quanto plasticamente. Soomai pare interessato, oltre che a costruire con più lena del solito le sue usuali geometrie e a districare gli ambiguissimi rapporti tra i personaggi, soprattutto a concentrarsi sulla sua protagonista, a guardarla (tentare di) ballare o usare il trapezio, a seguire la sua fresca estroversione ed instabilità come la sua strana, altalenante maturità.
 
Typhoon Club (1985) è forse il titolo più noto del cineasta – anche perché, a suo tempo, godette di una certa risonanza internazionale. Film folle e nichilista sulla follia nichilista di un gruppo di liceali lasciati a se stessi in occasione dello scoppio di un tifone che isola la loro scuola. Soomai gira con impressionante libertà, fa saltare qualsiasi criterio stabile di “direzione” temporale, azzeccando tra l'altro un brano davvero da antologia (il lungo, estenuante tentativo di stupro ai danni della ragazzina sfregiata). Si schiera non dalla parte di chi fa quadrare i conti (il suicidio del secchione, tremante di pathos ma irriso un minuto dopo), ma di chi conosce la purezza della fuga (il radioso finale, in mezzo alle rovine, con il semi-ritardato e l'alunna che si è salvata perché ha marinato la scuola). Imposta la prima metà della pellicola come un accumularsi di spunti centrifughi per poi, nella seconda metà, portare all'estremo questo assetto ed esasperare il disfacimento oltre ogni limite.
Otto anni dopo, Moving (1993) segue un'analoga impostazione. Nella prima parte, una bambina affronta il divorzio dei genitori rifuggendone sistematicamente il pur tangibile carattere traumatico. Nella seconda, abbiamo un uguale susseguirsi di piccole e grandi fughe, che però rispetto alla prima è reso iperbolico, portato agli estremi: si assiste così a un'incessante fuga “psico-geografica” di carattere apertamente onirico. Il risultato, di grande impatto emotivo, è tra le prove più felici, inventive e (una volta tanto) misurate del regista. Moving tocca una sorta di magico punto di equilibrio del suo cinema, mai più eguagliato in seguito. 
 
Prima di esso, ad ogni modo, Soomai firma due bizzarre incursioni in una capitale nipponica vacua ma crudele, mediatica e modaiola, vista da un ex provinciale come lui: Luminous Woman (1987) e Tokyo Heaven (1990). Il primo, assai meno riuscito, è un imbevibile melodramma appesantito da un'inattesa pigrizia registica, da cascami kitsch e da residuati dell'opera lirica (!), in cui un improbabile forzuto dell'Hokkaido tenta di salvare una bella cantante vittima di un magnate dello spettacolo. Il secondo è una sorta di Splash! Una sirena a Manhattan in salsa kaidan eiga virato a commedia: il fantasma di una giovanissima vedette morta improvvisamente fa visita a un impiegato della compagnia pubblicitaria cui prestava la sua immagine. Tra una gag e un'acrobazia di messa in scena, si fa strada una piacevole, frizzante e non banale allegoria sul mondo dello spettacolo, sulle energie che esso castra e sulla possibilità di un loro sfogo costruttivo – ciò che peraltro la parabola tracciata dalla carriera di Soomai sembra lungi dall'ignorare.
 
Parabola che, si diceva poc'anzi, dopo Moving si fa piuttosto discendente. Tanto The Friends (1994) quanto Wait and See (1998) soffrono della lampante incapacità di Soomai di ritrarre gli anziani: tanto il vecchio solitario la cui vita viene cambiata dall'incontro con tre bambini alla scoperta della vita e della morte, quanto l'arzillo e attempato viveur che piomba in casa di un rampante padre di famiglia che si vede la carriera azzoppata dalla crisi economica, sono personaggi evidentemente fuori dalle corde dell'autore – il che pesa sui due film assai negativamente. The Friends si lascia comunque guardare per il sereno, attivo, contagioso ottimismo dei tre marmocchi, e Wait and See, pur nella desolante inefficacia della regia, che affonda tutto in un ritmo pesante e amorfo, rischia di essere un ottimo documento dei tempi: il suo tranquillo ma inesorabile e totale crollo delle certezze di una famiglia della classe media innerva un'opera di lancinante amarezza, resa ancora più acuta dalla goffaggine delle sue rade aperture a qualche speranza.
 
Poco prima della morte prematura avvenuta nel 2001, però, Soomai si risolleva: il suo Kazahana (2001) appare come la giusta soluzione delle irresolutezze dei due lungometraggi precedenti. Si tratta, infatti, di un road movie, genere di per sé strutturalmente adatto ad accogliere le incrinature, anche sostanziali, della forma filmica e il sintomatico allentarsi della narrazione che ne deriva. Lo schema di massima è quello ultraconvenzionale di innumerevoli pellicole autoriali-festivaliere: un uomo e una donna in crisi si mettono in viaggio (ovviamente verso Hokkaido) e vengono a patti con le incompiutezze delle proprie vite. A essere pochissimo convenzionale è invece la disinvoltura ai confini dell'indifferenza, molle davvero, con cui affiorano, quando meno ce li si aspetta, i flashback che espongono il passato dei personaggi. Il cuore del film, infatti, non sta nelle loro storie, che sono per questo libere di andare e venire con identica irrilevanza: il cuore del film è nello strano modo, non estraneo a un certo incanto (qua e là addirittura visionario), di abitare il presente e la sua indeterminatezza. Abitare questa indeterminatezza (che è poi la stessa dell'adolescenza, qualunque sia l'età anagrafica) e cercare di darle una forma senza violarne la forza, è forse il nucleo centrale del cinema di Soomai e del suo imperfetto, volenteroso virtuosismo.
 
 
NOTE
 
(1) Dichiarazione riportata da Mathieu Capel, dalla cui conferenza tenutasi alla Cinémathèque Française il 17 dicembre 2012, e dal cui breve testo introduttivo che ha accompagnato la retrospettiva che la medesima Cinémathèque ha dedicato al regista giapponese tra Dicembre 2012 e Gennaio 2013, provengono la maggior parte degli spunti alla base di questo articolo.