C'è un'altezza da cui si guarda: siamo su un monte, posti di fronte all'orizzonte, talvolta negato da barriere nuvolose, altre spalancato da tracce fulgenti delle ultime luci del sole. Dall'alto inizia il racconto atavico che ha segnato la tradizione occidentale: una voce fuori campo, propria di un altro tempo, introduce un linguaggio nuovo, attraverso il quale riaffiora la parola evangelica, in una sacra rappresentazione che prende vita da nuovi volti, nuovi corpi, un nuovo sguardo. La Passione di Cristo è il soggetto non certo comodo, scelto da Giovanni Columbu per la sua opera seconda che si inserisce in un chiaro percorso dell'autore verso un cinema senza compromessi, nella ricerca di una forma in grado di spalancare il mito, senza mai mettere in crisi la parola, ma cercandone le sue cristallizzazioni più precarie e allo stesso modo resistenti.

Aperto dalla profezia di Isaia, pronunciata dal timbro roco di una voce senile (padre del regista e co-sceneggiatore del film), Su Re dichiara fin dai primi secondi la sua ricerca estetica, a partire da un'inquadratura sbilenca, fuori asse, che si cerca e si trova nel tempo necessario per fissare l'orizzonte, marcando d'umana incertezza le pietre aguzze del monte trasformato in Calvario, dando un palpito leggero all'immobilità di una terra in attesa del dramma in essere: il corpo offeso di Cristo, bagnato dalle lacrime della Madonna (in una prospettiva a cui ci ha abituato il capolavoro di Mantegna), riposa nel sepolcro. In questo tempo di attesa si rievocano gli eventi tra l'Ultima cena e la Crocefissione, le tappe della Via Crucis che sembrano ritrovare la propria forma-immagine grazie allo sforzo della memoria di ogni personaggio della storia.

Se Su Re non è un film tradizionale su Cristo (e in questo mostra il suo coraggio) è proprio perché nasce dalla consapevolezza dell'unità tra forma e contenuto, più volte indicata dagli stessi insegnamenti di Gesù: è forse il primo lungometraggio che cerca di tracciare un attraversamento tra le diverse parole evangeliche; Matteo, Marco, Luca e Giovanni raccontano i diversi episodi mettendo in evidenza sfumature esaltate da quest'opera aperta e plurale dove ogni azione è ripresa da punti di vista inediti, quasi fosse ricostruita in sogno dai testimoni del tempo. Centrale è quindi il momento della veglia nel Giardino dei Getzemani, in cui gli apostoli cadono addormentati (sentendo la “tristezza” ammoniscono le parole evangeliche): ripresi dall'alto nel sonno, suggellato da un'immagine che li appiattisce nell'erba e li rende estranei, riaffiora il ricordo dell'ultima cena e la paura del tradimento. Proprio questo lavoro sull'immagine che diventa una superficie di sogno, attraverso cui si accede allo spazio mentale della rievocazione, mette in comunicazione la ricerca di Columbu alle sofisticate elaborazioni di Aleksandr Sokurov, quando non sentiva ancora il bisogno di deformare la superficie per connotare lo statuto dell'immagine.

In questo regno della rappresentazione – la pittura non a caso è utilizzata come mediazione tra vita e cinema – il cineasta sceglie di donare meno spazio possibile all'ingombrante figura di Cristo: un uomo deforme e primordiale, talmente intenso da poter occupare il fuori campo senza mai essere messo fuori gioco. E proprio in questa scelta, che sia dal punto estetico che da quello etico rende il film un anti-Passion di Gibson, si apre la breccia che illumina di contemporaneità questa storia antica: non più il percorso dell'uomo-dio ma il suo rapporto con noi, noi cittadini del mondo e tutt'oggi spettatori consapevoli (o inconsapevoli?) dell'ingiustizia, noi ottusi dalla pratica di una visione talvolta eccessiva tanto da precludere la nostra facoltà d'azione, noi che siamo spettatori inerti di fronte a immagini che ci chiedono di più e ci lasciano la libertà di trovare la nostra storia attraverso il riflesso caleidoscopico della molteplicità.

In questo film, in cui con estrema semplicità si portano a compimento discorsi anche teologicamente alti (la figura di Giuda e il suo ruolo nella missione divina, su cui si era interrogato, vent'anni fa e suscitando clamore, Paolo Benvenuti ne Il bacio di Giuda), l'attenzione è tutta tesa a restituirci i volti di quella piccola folla, umanità senza tempo, che condannò un innocente e perse un figlio e un padre: sono i sentimenti scolpiti sui volti duri, di una bellezza altera e isolana, che domandano la nostra partecipazione di fronte all'impiccagione di Giuda e al martirio di Cristo, uniti dallo stesso magnifico raccordo di sguardo. Ma non c'è solo accusa in questa indagine attraverso gli uomini: proprio su di loro lo sguardo inquieto della camera sembra riposarsi e attendere, prima di essere gettata nella precarietà di colui che vede dall'alto: il volto della Madonna bagnato di lacrime, l'inquietante salita al Golgota, la furia di una maledizione che oscura il cielo e muove la terra sorda sotto lo scalpitare degli zoccoli.

E quando la profezia sembra avverarsi portando fuori fuoco un mondo che ha tradito e negato, calma ritorna la parola per riconsegnarci la parvenza di una rinascita umana e impervia nell'eterna grazia dell'infanzia.