Presentato in anteprima allo scorso Festival di Roma e a Milano in apertura del Filmmaker Festival, l’esordio nella fiction di Alina Marazzi ha da qualche giorno raggiunto le sale cinematografiche italiane. Tutto parla di te è un’opera liminale e una vera e propria sfida, sia dal punto di vista formale che contenutistico. Attraverso la storia di Emma (Elena Radonicich) e Pauline (Charlotte Rampling), la regista si addentra in un territorio proibito, quello dell’ambivalenza dell’essere madri e figlie, cercando di fare luce là dove i modelli idealizzati imposti dalla società hanno reso indicibile il disagio e la difficoltà che segnano la maternità. La precedente esperienza documentaristica della Marazzi non è stata tuttavia messa da parte ma, al contrario, integrata in un percorso che cerca di connettere la memoria dei personaggi finzionali a quella delle persone reali intervistate, in un gioco di riflessi e rispecchiamenti via via più intricato. Accanto agli home movies in Super 8, la struttura a collage del film è arricchita anche da performance di danza contemporanea, frammenti di animazione a passo uno – opera di Beatrice Pucci – e dalle fotografie di Simona Ghizzoni. Un mélange di linguaggi differenti messo a punto quasi a voler stabilire un codice universalmente comprensibile e comunicabile, che si discosti da quello finora impiegato dai mass media per trattare questi temi.

Abbiamo incontrato Alina Marazzi per capire cosa significhi accostarsi al cinema di finzione a partire da un percorso differente e per indagare la continuità di questo lavoro con i suoi precedenti. 

 
Con Tutto parla di te prosegui l'indagine sul femminile, in particolare sulla maternità spezzando molti tabù ancora esistenti. Come ti sei accostata al tema?
 
Inizialmente volevo lavorare su un argomento più specifico,  l’infanticidio, e metterlo al centro dell’opera. Avevo in mente di trattare una storia estrema per raccontare i lati più oscuri del rapporto madre-bambino, e quindi ho iniziato a prepararmi leggendo molti testi sull’argomento, sia quelli di taglio giornalistico che ricostruiscono storie di cronaca, sia quelli scientifici scritti da psicologi e psichiatri. Ma più leggevo queste storie, più ero a disagio di fronte all’idea di raccontare questo tema: non riuscivo a visualizzarlo, non potevo pensare di farne una ricostruzione o di raccontare un accadimento del genere con lo stile del documentario. Quindi nella prima fase del progetto interrogarsi sull’argomento è andato di pari passo con la riflessione sulla forma da adottare. 
 
Quando e perché hai scelto la fiction come collante per la pluralità di linguaggi che troviamo nel film? 
 
Mi trovavo a un punto del mio percorso in cui sentivo di poter aspirare a realizzare un’opera più complessa delle precedenti, e al contempo le persone più vicine a me, su tutti Gianfilippo Pedote alla Mir Cinematografica, mi invitavano a pensare a un film di finzione. In realtà da tempo ricevevo proposte simili, spesso legate a libri da portare sul grande schermo, ma avevo sempre reagito in maniera piuttosto confusa, perché il cinema narrativo classico non è quello che amo né da autrice né da spettatrice, in genere mi colpiscono molto di più le opere “fuori formato”. Dunque l’ipotesi di adottare la finzione tout court mi aveva sempre messo molto a disagio. Allora ho iniziato utilizzando il metodo del documentario, ovvero mi sono dedicata alla ricerca sul campo e ho registrato alcune interviste, per raccogliere delle testimonianze dirette e capire quali erano gli aspetti che le accomunavano. Le donne che ho intervistato, incontrate tramite delle associazioni che si occupano di sostegno alla maternità, mi hanno molto colpita per il loro desiderio di raccontarsi e per la loro richiesta di parlare di un sentire a cui non è ancora data abbastanza voce. Intanto da più parti mi veniva consigliato di raccontare la maternità attraverso la finzione perché, forse, i sentimenti ambivalenti legati a questo particolare momento, se interpretati da attori, avrebbero potuto toccare maggiormente le corde che mi interessava raggiungere. E quindi, non senza difficoltà, ho iniziato a pensare a una trama di finzione, però intrecciata con altri linguaggi, che mi permettessero di raccontare la storia attraverso differenti punti di vista: non riuscivo a pensare improvvisamente a un film classico, senza contare che la scrittura di finzione non è affatto qualcosa con cui mi sento a mio agio. Era certo un’operazione molto complicata, perché se in un film come Vogliamo anche le rose l’eterogeneità del materiale era il punto di partenza e la forma stessa del film, qui mi trovavo a scardinare e a interrogare un registro ben preciso, quello della finzione, con molti altri linguaggi. Non è un caso che la fase di montaggio sia stata molto lunga, perché è stato più difficile trovare una struttura da dare all’opera. 
 
 
 
Un’ora sola ti vorrei, Per sempre e Vogliamo anche le rose componevano una trilogia su alcune figure femminili e la loro difficoltà nell’adeguarsi a modelli imposti. Come inseriresti Tutto parla di te nel tuo percorso, artistico e personale?
 
Tutto parla di te ha avuto una gestazione molto lunga, per motivi produttivi e per la difficoltà a mettere precisamente a fuoco il tema; ma anche per  questioni personali e biografiche: mentre lavoravo su questa tematica sono rimasta incinta del mio secondo figlio, che adesso ha quattro anni. Questa seconda maternità è quindi arrivata proprio nel momento in cui più mi interrogavo sui sentimenti che una donna può provare durante quest’esperienza e la mia prospettiva e il mio punto di vista su quello che volevo fare sono mutati di conseguenza: ho messo da parte l’idea di incentrare il film su una storia estrema di infanticidio, perché ho pensato che in fondo fosse più interessante e toccante raccontare qualcosa in cui più persone si potessero riconoscere, ovvero quei sentimenti negativi che possono sorgere nel rapporto con un figlio e che spesso non trovano modo di essere espressi. 
Inoltre questo disagio è un tema che avevo già affrontato in Un’ora sola ti vorrei, perché la storia di mia madre è caratterizzata da una depressione post-partum, che poi si è trasformata in qualcos’altro. Quindi il fatto di tornare a parlare di questo malessere, a livello personale e biografico, ha a che fare con il percorso di ricerca che avevo già intrapreso in quel film. Tutto parla di te presenta diversi elementi di continuità con le mie opere precedenti e con la mia esperienza personale: io stessa sono figlia di una madre che ha vissuto una depressione in tempi in cui questa malattia non era nemmeno nominata, e oggi vedo che molte donne, che spesso arrivano a mettere al mondo il primo figlio tardi, verso i quarant’anni, vivono in maniera molto difficile quest’esperienza così coinvolgente. 
 
Pauline – interpretata da Charlotte Rampling – riesce a condensare visivamente e a universalizzare le diverse voci che si alternano nel film. Com’è nato questo personaggio e come sei arrivata a scegliere la Rampling per questo ruolo? 
 
Dopo circa due anni spesi a lavorare e a fare ricerche per nutrirmi di tutto quello che era stato prodotto intorno al tema della maternità, e dopo che il mio secondo figlio aveva ormai compiuto un anno, mi trovavo in una fase di stallo, perché non riuscivo a visualizzare e a scrivere il progetto. Non è da sottovalutare il fatto che la parte produttiva di un film non è ininfluente sul processo creativo: in questo caso, mi era stata chiesta una vera e propria sceneggiatura che poi sarebbe stata valutata ed eventualmente sostenuta, e quindi mi sono trovata nelle condizioni di cercare di restituire già in fase di scrittura la molteplicità e l’intreccio di linguaggi che erano nella mia testa. Cercavo allora dei collaboratori che potessero aiutarmi a mettere su carta queste interferenze di codici differenti. È stato perciò naturale iniziare a scrivere con Dario Zonta, che è anche il mio compagno, mi conosce molto bene e ha più confidenza con la scrittura di quanta ne abbia io. In questa fase, durante la quale abbiamo messo a punto il soggetto da cui poi è nata la sceneggiatura, ho avuto l’idea di mettere al centro della storia una donna adulta, che ha vissuto un’esperienza di questo tipo e la riporta come se si trattasse di un narratore. Inizialmente pensavamo di adottare un registro da film noir, con una figura simile all’investigatore che nel raccontare un accadimento del passato compie un’indagine, trova dei documenti e li conduce dentro al racconto, mescolando diversi livelli temporali. La donna con la sua ricerca sarebbe stata così il dispositivo che avrebbe permesso di introdurre i materiali documentari e fotografici nel film. L’idea che avevo era abbastanza estrema, avrei voluto che questa donna raccontasse direttamente in macchina, con il suo volto intenso e vissuto, la storia di un’altra donna, aprendo di volta in volta diverse finestre, secondo uno schema piuttosto teatrale. Questa prima scrittura sembrava quindi quella di un film di montaggio, molto sperimentale. Poi mi è stato chiesto di finzionalizzare maggiormente il personaggio e di drammatizzare e ampliare questa parte di fiction, riducendo le altre parti. 
Pensando a questa donna adulta, io, Dario Zonta e Daniela Persico, che aveva iniziato a collaborare alla scrittura e alla sua revisione, ci siamo domandati quale potesse essere il suo volto, e così è stato fatto il nome di Charlotte Rampling. Siamo riusciti a contattarla tramite un agente, le sono stati inviati i miei film precedenti e la sceneggiatura tradotta, e lei ha voluto incontrarmi. È stata subito colpita dalla storia di Tutto parla di te e dal modo di raccontare che ho usato nei miei film; quando poi ci siamo incontrate c’è stato un buon feeling: era molto incuriosita e questo progetto rappresentava anche un’occasione per lavorare in Italia. Voleva recitare in italiano, lingua che non parla di solito, e non essere doppiata, così ha proposto di rivederci dopo quattro mesi. In questo periodo le abbiamo affiancato una persona che le insegnasse la lingua e le facesse da coach: se il suo italiano fosse stato accettabile, avrebbe preso parte al progetto. 
 
 
In un’intervista definivi il documentario come cinema “di relazione”, tra lo sguardo del regista e il soggetto ripreso. Cosa cambia quando i soggetti in questione sono attori da dirigere?
 
Per me dipende molto dal singolo attore con cui ti trovi a lavorare. Avevo avuto poche esperienze in questo senso, legate a quando ho lavorato sui set di Giuseppe Piccioni e di altri registi. Ma avendo svolto in quelle occasioni il ruolo – molto tecnico –  di aiuto regista, avevo solo potuto osservare i registi che dirigevano gli interpreti. Con Elena Radonicich, che nel film interpreta Emma, ho avuto modo di fare un lavoro abbastanza lungo, sfruttando il periodo di tempo a disposizione prima dell’inizio delle riprese. In questo modo ho instaurato con lei un rapporto personale, prima ancora che professionale, fatto di fiducia reciproca, anche perché si trattava del suo primo ruolo cinematografico importante e per di più accanto a un’attrice come Charlotte Rampling. Abbiamo parlato del suo personaggio e l’ho preparata anche in merito alla danza, che non è il suo mondo. Per quanto riguarda la Rampling, invece, ho avuto modo di notare la sua assoluta professionalità, ma anche la sua capacità di entrare fortemente in relazione con le persone: l’ha fatto con me e con Elena, con cui ha instaurato un rapporto di autentica complicità e, a un altro livello, anche con le persone della troupe. È significativo che sia arrivata sul set da sola, senza assistenti o truccatori personali, perché per lei sposare un progetto vuol dire immergersi nel rapporto con le persone con cui lavora, senza intermediari. Con gli attori ho svolto un lavoro prevalentemente istintivo: quello che chiedevo loro era di essere presenti più con il corpo che con le parole. Infatti i loro personaggi emergono soprattutto per questa caratteristica. Pauline parla molto poco, la vediamo soprattutto aggirarsi nella casa, attivare diversi oggetti e avere delle visioni; e così anche Emma. 
 
In Un’ora sola ti vorrei eri tu a leggere i diari di tua madre; in Tutto parla di te è tua la voce che sentiamo nelle registrazioni delle sedute della madre di Pauline, e tue sono le mani che frugano nella scatola ritrovata dal personaggio. È come se volessi metterti in gioco accanto alle protagoniste dei tuoi film, accorciando le distanze tra il tuo sguardo e il loro vissuto…
 
Sicuramente in Tutto parla di te accade per via del tema, e per il fatto che questo film contiene elementi che ritornano lungo il mio percorso personale e artistico: c’è molto di Un’ora sola ti vorrei, ad esempio, nel ritrovamento della scatola che contiene le bobine sonore e le fotografie. In qualche modo, quindi, riproduco quello che ho vissuto realizzando Un’ora sola ti vorrei, e nelle azioni di Pauline ho inserito parte del mio vissuto: la sua indagine somiglia a quella che avevo condotto io per ricomporre i pezzi della mia storia. Le voci dei nastri, invece, sono trascrizioni di reali dialoghi avvenuti qualche anno fa tra una psicanalista e una donna condannata per infanticidio in un ospedale psichiatrico giudiziario: sono un repertorio, non sono stati scritti da me. Proprio per questo motivo si è dibattuto circa l’opportunità di far interpretare le voci a degli attori; alla fine, proprio perché si tratta di estratti di realtà, mi è sembrato più interessante che le voci recitanti fossero vere e in qualche modo “documentarie”. 
 
Oltre alle registrazioni, che evidenziano la difficoltà comunicativa interna al rapporto tra terapeuta e paziente, la risoluzione del trauma di Pauline passa dal raccontare il proprio vissuto a un’altra madre e non a uno psicologo o a uno psichiatra. Sembra emergere una certa sfiducia nei confronti di queste figure…
 
In realtà l’indagine di Pauline è un percorso di riparazione, di ricostruzione, e quindi è per eccellenza il percorso che ogni terapeuta desidera per il proprio assistito. Aggiungerei che l’inserimento dell’animazione nel film nasce sicuramente dal mio amore per questo linguaggio, ma anche da un elemento che era emerso parlando in fase di ricerca con un’amica psicanalista junghiana, Lella Ravasi. Mi aveva spiegato che spesso nelle terapie con i bambini si utilizza la tecnica del sand play: in sintesi, si chiede al paziente di giocare su una superficie sabbiosa con una serie di oggetti e piccoli personaggi, raccontando e mettendo in scena una storia. Questa pratica mi ha molto colpita e ho deciso di inserirla nel film attraverso la sequenza di animazione: la famiglia-giocattolo prende vita grazie a Pauline; riaprendo e spolverando la casa di bambola, infatti, la donna arriva a infonderle vita e a realizzare come gioco, sogno o visione la felicità domestica che non si era avverata nella sua vita di bambina. Quindi l’inserimento dell’animazione deriva da un elemento legato alla psicanalisi e a un processo di ricostruzione, di autonarrazione, attraverso una piccola messa in scena che in quel caso avviene con i personaggi e gli oggetti animati a passo uno. 
 
 
Un’altra modalità con cui viene rappresentato il rimosso di Pauline è quella delle fotografie, che appaiono prima nei dettagli fuori fuoco, poi in una maniera più completa.
 
L'intervento della fotografia deriva dal fatto che ero stata molto colpita dalle foto di Francesca Woodman. Sono immagini che colgono delle figure di donne spaesate, tormentate, fuori fuoco, intrappolate tra le mura di case spoglie e abbandonate; spesso il soggetto è nudo o con il volto poco riconoscibile. Sono fotografie molto forti e il mio sogno iniziale era quello di poterle utilizzare come documento, ma non è stato possibile, da lì è nata l’idea di farle realizzare appositamente per il film. La fotografia è usata per esprimere al meglio la rappresentazione simbolica dello stato d’animo di una figura sdoppiata, intrappolata e fuori fuoco. Grazie al contatto con l’agenzia fotografica Contrasto, c’è stato l’incontro con Simona Ghizzoni, fotoreporter che porta avanti anche un lavoro personale di autoritratti ispirato negli stati d’animo espressi dalle celebri foto di Woodman. Così si sono elaborate le immagini che diventano la visione ricorrente di Pauline. 
 
Il personaggio di Emma mi pare riesca a incarnare un sentimento molto attuale legato al divenire madri, e forse esacerbato dalla mancanza di tutele propria del lavoro precario, ovvero la maternità vissuta come ostacolo alla realizzazione professionale…
 
La maternità viene vissuta in questo modo, per questo tende ad essere posticipata il più possibile, forse perché si ha paura del proprio cambiamento e di quello della coppia. Ma più ancora si teme di perdere quello che si è costruito, come se l’identità passasse solo attraverso gli interessi, il lavoro, le attività che si svolgono e non attraverso il fatto di essere madre. La maternità rappresenta una perdita di identità, perché questa cambia inevitabilmente: le immagini fuori fuoco e sdoppiate che ho scelto di inserire nel film sono legate proprio alla percezione di sé che sembra svanire, e alle domande che sorgono di conseguenza: “Sono io o siamo due? Chi siamo? Quando potrò tornare a essere me stessa?”. Riguardo al personaggio di Emma, volevo che fosse una madre giovane e quindi dotata di una carica aggressiva che forse una donna adulta non ha, perché le è più facile razionalizzare. Poi mi interessava la questione del corpo e del suo cambiamento, perciò ho scelto che fosse una danzatrice, un personaggio abituato ad avere il controllo assoluto sul proprio corpo: quando lo perde, è come se perdesse completamente l’equilibrio e il proprio baricentro. L’immagine in cui Emma si distacca dagli altri membri della compagnia di ballo durante le prove, segna lo scarto tra la percezione che il personaggio ha di sé e quella dei compagni, che ancora non sanno nulla. È il momento in cui la ragazza prende consapevolezza del fatto che diventando madre non potrà continuare a fare quello che fanno gli altri. Nell’ambiente artistico la compagnia è una famiglia, che spesso vive intensamente la promiscuità e l’essere insieme in maniera fisica. Di fronte a questo cambiamento del proprio corpo, Emma non può più vivere il senso di appartenenza al gruppo. 
 
Potresti dirci qualcosa sul personaggio di Valerio, coreografo di Emma e figura maschile sfuggente, che sembra accogliere con calore la ragazza ma al contempo faticare a comprenderne il malessere?
 
Valerio è il coreografo della compagnia e quindi è anche una figura paterna per i danzatori; ha un ruolo assimilabile ai registi teatrali delle piccole compagnie o delle compagnie di teatro off, che spesso instaurano legami molto forti con gli attori e quindi anche delle dinamiche di potere. Di Valerio ed Emma sappiamo solo che esiste un rapporto tale per cui lei può andare a vivere a casa sua se è in difficoltà, così come spesso le case di queste persone alternative sono i luoghi dove si lavora, si discutono i progetti, si mangia insieme e si vive in comunità. Valerio vuole bene a Emma, ha un fare non paternalista, scevro da moralismi, è qualcuno che l’ha cresciuta come danzatrice, come artista e che ha aperto la sua casa per lei, senza chiedere niente in cambio. Mi interessava che ci fosse questa figura maschile – né padre né compagno di Emma, ma in fondo un po’ tutti e due – perché il centro della crisi della danzatrice non fosse il rapporto di coppia, appena accennato: la crisi che il 90% delle coppie vive quando si ha un bambino non è il vero motivo del malessere che una donna può provare, ma è una problematica tangenziale. Quindi mi sembrava più interessante che la casa dove Emma vive non fosse quella di una giovane coppia; anche perché attualmente è raro che coppie “artistiche” possano permettersi di vivere in un appartamento da sole con il loro bambino. 
 
Il titolo provvisorio del film era Baby Blues. Perché hai poi preferito Tutto parla di te?
 
Baby Blues era stato il working title, anche perché avevo scritto un breve racconto con questo titolo, inerente allo stesso tema. Tuttavia non mi convinceva come titolo del film perché non volevo fosse in inglese e non volevo connotare l’opera con questa parola, oscura a molti e fonte di possibili equivoci. Ho deciso così di chiamarlo Tutto parla di te, riprendendo una battuta pronunciata da Pauline: il film restituisce diverse voci di donne che esprimono quello che Emma non dice. Inoltre l’impressione è che ognuna di loro arrivi a parlare di qualcosa che riguarda anche le altre, e quindi mi sembrava che il titolo potesse restituire il senso di coralità e di circolarità del racconto.