All’alba del giovedì, una famiglia di Santiago si mette in viaggio per raggiungere in macchina il nord del Cile. Quello che sembra un banale e ordinario week-end di vacanza, diventa per la primogenita Lucia il momento di fare i conti con la decisione dei genitori – mai esplicitata ma suggerita – di separarsi.

Presentato nella sezione Festa mobile alla 30a edizione dei Torino Film Festival, Thursday Till Sunday segna il folgorante debutto al lungometraggio di finzione della ventottenne cilena Dominga Sotomayor. Il film nasce da alcuni ricordi di viaggi di famiglia vissuti dalla regista durante l’infanzia, che vengono finzionalizzati per produrre il racconto dell’amore incondizionato di due genitori per i loro figli, nonostante il loro fallimento nel preservare la sacralità dell’istituzione familiare. Non ci è dato sapere, da quanto viene messo in scena, da chi provenga la scelta della separazione, e d’altra parte non vuole essere questo il focus del racconto. Piuttosto, la regista si confronta con l’impatto che un tale strappo può avere su chi si trova non solo costretto a subirlo, ma anche impossibilitato a comprendere.

La passività dei bambini all’interno della famiglia è messa in primo piano sin dall’apertura del film, quando il corpo addormentato del piccolo Manuel è trasportato nella macchina prima della partenza. Così come la posizione instabile di Lucia – in cui il sentore del disfarsi della relazione tra i genitori si somma alla fase ormonale di transizione che sta vivendo come preadolescente – è ben evocata attraverso momenti di improvvisa solitudine e di distacco dagli altri membri della famiglia.

La dimensione temporale del film non è dunque quella del passato e della sua emersione, quanto quella indefinita e imperscrutabile del futuro, verso cui sembra procedere la stessa automobile. Non a caso è l’abitacolo del veicolo ad offrirsi come spazio privilegiato della messa in scena, consentendo alla regista di stabilire una continua dialettica tra sedili posteriori e anteriori, e di riflesso tra chi guida (la famiglia) e chi è per il momento solo passeggero, tra chi si rifugia nel silenzio e chi interroga. Manuel e Lucia trascorrono le ore di viaggio giocando, cantando, o annoiandosi per lo scorrere di un paesaggio che non è altro che una sequenza di luoghi semidesertici e privi, ai loro occhi, di alcun significato. Ma la loro è una distrazione solo apparente, che si tramuta in una vigilanza inquieta quando qualche increspatura irrompe nella routine del viaggio. Lucia, in particolare, intravede il cambiamento in corso osservando attentamente i genitori, i loro gesti, la loro prossemica, e il suo sguardo è eletto progressivamente a punto di vista dominante. La Sotomayor crea così immagini multistratificate, nelle quali lavora con la messa a fuoco per suggerire, da un lato, la perdita di definizione della realtà agli occhi della ragazzina, e dall’altro per far emergere il volto o la figura di Lucia rispetto allo scenario circostante, come a voler figurare la necessità di una distinzione, di uno sguardo distaccato, per leggere e decodificare la realtà.

In tutto questo la parola sembra sottrarsi a una vera e propria significazione, o perchè i dialoghi sono frammenti di discorsi inutili ai fini della diegesi, o perchè si fa spesso ricorso al bilinguismo come stategia per tenere qualche personaggio all’oscuro di quanto viene detto. Così, i genitori comunicano in inglese ciò che non desiderano sia compreso dai figli, mentre Lucia racconta ai suoi compagni di giochi come l’ultima tendenza nella sua scuola sia quella di mescolare nelle frasi spagnolo e inglese. In maniera ancora più incisiva, un bambino incontrato durante una sosta racconta a Lucia e a Manuel una storiella in un francese stretto e velocissimo: i due non possono evidentemente comprendere quanto viene detto, eppure assecondano l’intenzione dell’enunciatore manifestando con i loro volti sorpresi un coinvolgimento quantomeno emotivo. L’espressione in altre lingue sembra dunque voler drammatizzare l’inafferrabilità per Lucia e Manuel di un racconto più ampio, articolato, ancora da abbracciare nella sua totalità.

L’entrata in scena di Juan, un amico di vecchia data della madre Ana, rappresenta la violazione di quello spazio intimo entro il quale era possibile censurare per i genitori il desiderio di una svolta. La disgregazione non viene più solo evocata, ma è ora messa in atto, anche se mantenuta nel fuori campo: del tradimento consumato da Ana, Lucia intende solo dei gemiti, mentre le sue soggettive sono oscurate dal buio notturno. Sono i maiali che irrompono tra le tende al mattino, con la loro carica di violenta bestialità, a fornire un corrispettivo visivo a una sessualità avida e animalesca che le è del tutto sconosciuta e che demolisce l’iconografia materna che ha nutrito la sua infanzia.

Tuttavia la Sotomayor riesce a passare in maniera tanto imprevista da queste sequenze che fanno emergere il gap esistente tra l’inconsapevolezza infantile e l’amarezza della maturità, ad altre dominate dalla pura spensieratezza dei giochi dei due ragazzini, che è difficile definire cosa pensi Lucia in ogni momento e quale sia il suo preciso grado di consapevolezza circa l’imminente separazione dei genitori. È chiaro comunque che la “domenica” sia l’approdo a una coscienza nascente, metaforizzata dall’arrivo nei terreni del nord del Cile, aridi e con orizzonti che si perdono a vista d’occhio. Alla maniera di Antonioni, la regista abbandona l’interno dell’automobile per disperdere i suoi personaggi nel paesaggio desertico, facendo parlare il vento al loro posto, giocando con le proporzioni per fare di Lucia in primo piano il perno attorno a cui si muovono le figure minuscole dei genitori sullo sfondo, prima separate, poi congiunte, infine separate di nuovo. Disorientata, Lucia si muove su un terreno che sembra poter crollare da un momento all’altro e si affaccia così a un’esistenza fatta di momenti parziali, in cui felicità e sofferenza possono convivere senza una ragione apparente.

 

Thursday Till Sunday (De jueves a domingo), regia di Dominga Sotomayor Castillo, Olanda/ Cile 2012, 96'.